lunedì 27 aprile 2009

ROMANTIC - VALERIA LAMONEA / ELISA LARAIA / PAOLA RISOLI - MARCHE CENTRO D'ARTE - GALLERIA MARCONI, CUPRA MARITTIMA

Valeria Lamonea

Elisa Laraia


Paola Risoli


dal 3 maggio al 31 maggio 2009

inaugurazione 3 maggio ore 18:00
Galleria Franco Marconi
c.so V. Emanuele, 70 - Cupra Marittima (AP)
Tel +39 0736 778703
galleriamarconi@tiscali.it
www.siscom.it/marconi
ingresso libero
aperto tutti i giorni dalle 16:30 alle 20:00
domenica chiuso
curatrice: Gloria Gradassi




Domenica 3 maggio alle 18.00, la Galleria Marconi di Cupra Marittima presenta la collettiva Romantic, con i lavori di Valeria Lamonea, Elisa Laraia e Paola Risoli. La mostra, a cura di Gloria Gradassi, conclude la rassegna Gallerista sull'orlo di una crisi di nervi.
"In Romantic, tre giovani artiste, percorrendo strade diverse per interessi e linguaggio, segnalano un comune bisogno di sentimento ed emotività.
Le loro opere attraggono perché vibrano di sensazioni, ricordi, verità che movimentano le percezioni.

VALERIA LAMONEA
Innocenza e malinconia, bellezza e angoscia, leggerezza e dolore. L’insidia del reale, è quanto Valeria Lamonea trasmette attraverso le sue immagini e le sue installazioni. Immagini all’apparenza perfette, conformi a quanto il senso comune lascia presagire, “disturbate” da particolari che ne deviano la lettura comunicando attraverso il contrasto un dolore nato dalla disillusione, da un’aspettativa tradita.
Da ciò deriva un urto che inizialmente seduce, che sembra trasgressione, per poi tramutarsi in impotenza. Valeria Lamonea è interessata in particolare al mondo sognante dell’infanzia; avvicinando forme semplici e accattivanti a materiali violenti e offensivi va oltre l’affabulazione e smaschera le apparenze per dire una seconda verità: un gioco altalenante che manipolando il contrasto traduce in scacco il piacere visivo.

ELISA LARAIA
Le immagini di Elisa Laraia formano un anello di congiunzione tra interno ed esterno. Un lavoro sulla memoria che, con il suo carico di emotività e scarsa definizione, prende parte ad un dialogo con il reale dando luogo ad inedite contaminazioni. Le immagini mentali, le proiezioni individuali con il loro carico affettivo si confrontano con il quotidiano modificandone la percezione. Elisa Laraia interviene spesso in luoghi reali con installazioni site specific nelle quali il suo immaginario si sottrae alla dimensione raccolta della contemplazione per tramutarsi in immagine debordante e interrogativa. Il fruitore è sollecitato a condividere emozioni, porsi domande, creare relazioni, riconoscere in se stesso emozioni latenti. Così l’artista innesca una catena emotiva fatta di scintille che s’accendono attraverso i ricordi.

PAOLA RISOLI
Interiors sono gli interni dell’anima, percorsi scavati nell’emotività dell’artista. Paola Risoli ci conferma che l’assenza della figura umana ne evoca a volte la persistenza. I suoi spazi dilatano le emozioni e introducono ad un mondo parallelo, ideato e vissuto con intensità. I luoghi che noi abitiamo portano tracce del nostro essere, così gli Interiors di Paola Risoli raccontano storie private, intime, silenziose eppure profonde. Quello che si srotola sotto i nostri occhi potrebbe essere una pellicola fatta di musica e fotografia, che coinvolge lo spettatore attraverso luci barocche e per via di uno spiazzamento innescato dalla sovrapposizione tra realtà e finzione.
La fotografia è concepita come su un set cinematografico, è artificio narrativo dal quale trapela una sensibilità raffinata capace di costruire un mondo di meraviglia intorno alle piccole cose". (Gloria Gradassi)

Gallerista sull’orlo di una crisi di nervi
La serranda in Galleria è abbassata ormai da una settimana, Franco non risponde al telefono, e anche facendo il giro degli ospedali non si ha notizia di lui. Le voci iniziano a rincorrersi senza ragione: una donna? Le banche? I marziani?
Un giorno riceviamo una cartolina da Dubai con dietro il messaggio:
Ciao Lazzaroni vi voglio bene ma non mi mancate affatto
zio franco

Si ringrazia l'Associazione Alta Fedeltà
http://www.associazionealtafedelta.org/
per la collaborazione

giovedì 23 aprile 2009

FRANCO VOLPI, IN MEMORIAM

Riportiamo qui un articolo apparso su Il Giornale di Vicenza (http://www.ilgiornaledivicenza.it/) del 16 Aprile 2009. Più che un articolo, un ricordo. Una memoria di Franco Volpi: scritta a caldo, dopo la triste notizia della sua morte.
La firma di questo ricordo vivo e penetrante, di Volpi come persona, intellettuale e filosofo, è quella di un altro filosofo, suo sodale e amico: Alfonso Cariolato. Che qui ringraziamo calorosamente per la segnalazione del pezzo e il regalo che ci fa nel far condividere, a più persone possibili, le sue parole.

G. P.



© Indira Restrepo

Non so se riuscirò mai a credere veramente che Franco Volpi non c’è più. Tutto in lui testimoniava per la vita; non solo la sua profonda intelligenza, ma prima ancora i gesti, lo sguardo, l’ammiccare dei suoi occhi. Entrava in una stanza e qualcosa accadeva. Non si poteva rimanere indifferenti, neanche a volerlo. Franco parlava, e ci si sentiva spinti a prendere la parola come per effetto di un’amicale ingiunzione: “Parla anche tu!”, “Parliamo!”. La parola condivisa – anche la più innocua – operava così una sorta di equilibrio, di bilanciamento, di fragile cucitura. Certo provvisoria, parziale, ma mai indifferente. Franco Volpi aveva una straordinaria familiarità con la parola. Era sorprendente sentirlo parlare nelle diverse lingue che conosceva, perché ogni volta sembrava egli stesso catturato dalla peculiarità del suono, del ritmo, della cadenza di ciascuna lingua. Parlare, si sa, è anche sempre essere parlati; il linguaggio si fa incontro dappertutto, come scrive Heidegger, e noi non ne siamo solo attraversati, ma – ben di più – anticipati, spinti fuori di noi, aperti irrimediabilmente al mondo. Questa sensibilità nei confronti della parola ha guidato tutti i lavori di Volpi, e costituisce forse la cifra caratteristica della sua opera, dalle traduzioni mirabilmente puntuali soprattutto, ma non solo, di fondamentali testi heideggeriani (da Segnavia ai Contributi alla filosofia, passando per il Nietzsche), agli imprescindibili studi sulla presenza di Aristotele in Heidegger, e ancora al lavoro sul nichilismo, fino alle edizioni di Schopenhauer e Carl Schmitt. Per Volpi la parola è logos, e dunque espressione del pensiero, ma anche sonorità vocale, risonanza, insomma ciò che prima della filosofia si designava con il termine epos o, per meglio dire, quello che ne rimane nell’epoca del disincanto. In lui la parola dei filosofi manteneva una sorta di fascinazione, per questo le sue lezioni all’università o altrove colpivano immancabilmente l’ascoltatore: accanto alla precisione e all’esattezza davvero uniche si percepiva un respiro più ampio, e un’ammirazione non solo per ciò che diceva il pensatore preso in esame, ma soprattutto per come lo diceva.
La stessa affinità con la parola, lo rendeva pronto a percepire anche il rischio che ad essa sempre si accompagna: il suo dilatarsi smisurato, lo scadere a non senso. Ma è esattamente qui che si misura la finitezza, e in questo spazio ci si deve muovere: sul sottile crinale tra il farsi del senso e l’insensatezza. E la filosofia non può essere altro che un sapere finito. Così la storia della filosofia che Franco Volpi ci ha insegnato – anche attraverso il Großes Werklexikon der Philosophie da lui curato, di cui esiste anche un’edizione spagnola in tre volumi –, assumeva una tonalità particolare. Lasciato da parte ogni storicismo (che non fosse, forse, quello ontologico di derivazione heideggeriana), restava appunto la storia che il nichilismo aveva eroso nella sua pretesa di totalità, ma che pur tuttavia permaneva come un insieme sterminato di autori, di pensieri, di questioni che, nell’assoluta precarietà dell’esistere, manteneva forse l’ultima singolare apparenza di compiutezza. Naturalmente, solo di apparenza si tratta. E Volpi lo sapeva bene. E tuttavia, come diceva lo scrittore e pensatore colombiano che aveva riscoperto e che negli ultimi tempi sentiva assai vicino, Nicolás Gómez Dávila, il lavoro dello storico della filosofia può condurre a riscoprire quelle ombre tenui che seducono in modo inconfondibile e puro attraverso il tempo. Vi era qualcosa di kantiano nel modo di affrontare la storia della filosofia da parte di Volpi: la storia è un’illusione, ma un’illusione feconda, e d’altra parte “il pensiero” è un’attività “così gratificante da farci dimenticare la stessa mediocrità dei nostri pensieri”. Così scrive Volpi nella prefazione ad un testo di Gómez Dávila uscito per Adelphi nel 2007, intitolato Tra poche parole. Di questo breve saggio disse un giorno, rispondendo con un sorriso a una domanda di una studentessa, che conteneva, in filigrana, la sua filosofia. In effetti, sul filo del commento al testo gomezdaviliano, sfilano i concetti chiave su cui insisterà tutto il lavoro di Volpi: la vertigine del pensiero, la priorità della filosofia pratica (e Franco – lo dico incidentalmente, ma non smetterò di essergli grato per questo – incitava sempre, tutti, a fare, a scrivere, a tradurre…), la centralità della vita vissuta, il rapporto tra la carne, la vita e l’esercizio dell’intelligenza in un mondo dove ormai ogni trascendenza appare depotenziata e inerte. E questo Volpi l’ha sempre cercato nel confronto con una miriade impressionante di autori – sembrava aver letto tutto, sapere tutto. Non è un’iperbole, ma semplicemente quello che tutti noi sentivamo ascoltandolo. Perché questo era il suo modo di intendere la storia della filosofia: dare voci alle voci, isolare nel rumore bianco della storia la singolarità di un pensiero, di una parola proferita, di un gesto filosofico. E fra tutte quelle voci che rifluivano in ogni nostra discussione come onde chiare di un mare oscuro senza sponde né direzioni predefinite, io ne sentivo risuonare un’altra, ogni volta più forte, ogni volta più chiara. La tua, Franco.

Alfonso Cariolato
(da Il Giornale di Vicenza, 16 aprile 2009)

lunedì 20 aprile 2009

(CATTIVE) MEMORIE DA SOTTOTERRA...






Antonio Moresco
"Lettere a nessuno"
Einaudi, Torino 2008, pp. 728

[di Maurizio Inchingoli]



Che cos'è l'io? Che cos'è la voce? Sono la stessa cosa? Perchè - ad esempio - di certi scrittori mi arriva l'io ma non mi arriva la voce? A volte mi sembra che anche quella cosa che è stata chiamata "io" faccia diaframma alla voce, che parte da zone più profonde e allagate, oltre il piccolo gioco dell'io e del suo contrario. Che per dare spazio alla voce occorra separarsi anche da quel diaframma interpretativo che è stato chiamato "io" per entrare in un'intimità più profonda e senza ritorno. Non per andare verso l'altrettanto artificiale mistificazione del mondo visibile intellettualizzato, ma per infilare come una freccia, ancora, ancora, ancora la cruna della faglia sempre sul punto di chiudersi.

Alfredino Rampi sotto terra, a un lombrico:
- Non posso diventare un lombrico anch'io?
- Mah, non saprei, ci vuole del tempo...
- Ah, si, tu ci hai messo tanto?
- Sì.
- Quanto ci hai messo?
- Be', non saprei... qualche milione di anni.



Una scoperta, una sorprendente discesa nel più recondito anfratto della conoscenza. Come quando si vede la luce per la prima volta, come i lombrichi che lavorano incessantemente la terra, o si torna a vivere una vita degna di essere definita tale. Dopo essere stato per molto, troppo tempo sotto terra, o sott'acqua, come in apnea, Antonio Moresco torna a respirare - e noi, forse, insieme a lui - a tirare fuori la testa, con gli schizzi dell'acqua che ci piovono addosso copiosi e freddi, come a svelare e squarciare definitivamente il velo di ipocrisia che aleggiava certamente su una larga parte dell'industria culturale italiana con cui l'incazzato autore, originario di Mantova, ha dovuto combattere strenuamente.
Incipit:

"Mi sono svegliato per non morire."

Ci racconta nel farsi iniziale di queste disperate ma dignitose lettere a nessuno; titolo affascinante, criptico, volutamente arricciato su sè stesso, come a voler ribadire una paradossale ed estranea lotta contro i mulini a vento di donchisciottesca memoria. Scrivere a sè stessi, lucidamente, per ricordarsi quello che si è, perchè l'interlocutore è quasi sempre assente, muto, lontano. In questo caso anche, ed a volte ignaro quasi della lotta per la vita di Moresco, ma tutto sommato privatamente conscio e complice di una programmatica guerra a braccia aperte per non far affiorare il talento della scrittura visiva e concentrica dell'autore di "Canti del Caos" e de "La Cipolla", così ben metaforizzato nella citazione della agghiacciante favola horror dei fratelli Andersen, nella quale un bambino sepolto che torna a vivere tenta invano col braccino di rivedere la luce, ma lo spingono a rimanere sottoterra, e muore inevitabilmente soffocato.
Il tentativo di "Lettere a nessuno" è quello, riuscito felicemente, di segnare una lunga traiettoria, mettere un po' d'ordine tra la memoria celata e tutta personale del nostro, nell'attraversamento di una fase storica di fine secolo/millennio travagliata ed altamente problematica, che Moresco descrive con una precisione spaventosa. Citando episodi al limite dell'incredibile, come gli omertosi comportamenti tenuti da parte di gente che dovrebbe essere invece per prima interessata al talento ed alla scoperta di voci fuori dal coro. Ma evidentemente questo è solo uno sporco equivoco, e Moresco non lo nasconde, anzi ne rafforza coraggiosamente la teoria, mettendo alla luce uno scenario meschino a volte, incredibile quasi ripetiamo, di fatto atterrito dalla grandezza autoriale e morale, sotterranea e testimoniale dell'autore lombardo. Fa paura che una persona che ha conosciuto da dentro il movimento intellettuale, ma anche operaio e di lotta degli anni '70 e '80, possa diventare col tempo un validissimo scrittore senza peli sulla lingua, un'autore osceno, nel senso beniano del termine di o-skenè, fuori scena, fuori dalle regole - ma solo quelle stabilite dallo status quo ufficiale - che parla senza peli sulla lingua dei dietro le quinte di quel periodo travagliato e mette a nudo, letteralmente, le dinamiche di acquisto del potere da subito dominate da alcuni dei protagonisti di queste illuminanti e tristi vicende di vita. Tanti sarebbero gli episodi da citare, lo ripetiamo, ma non è solo questo quello che conta. L'importante è riconoscere a Moresco la statura autoriale che gli si confà, e con tutti gli onori del caso, senza arrivare a premi di facciata, ma mettendo in risalto la bravura e la qualità di scrittura che è la caratteristica primaria di uno dei più importanti scrittori della fine del '900 europeo insieme a pochi altri degni di questo immaginario Pantheon. Inutile e sciocco perciò fare dei nomi, la cosa più importante è che al momento uno come Moresco ci stia tutto, certamente non imbalsamato e celebrato come ad un funerale, ma semplicemente e senza ipocrisie, per soddisfare il suo ego, ed il nostro, colpito da queste settecento vitali pagine che fungono da spartiacque per la cultura letteraria italiana tutta. Un giusto riconoscimento ad una persona che ha conosciuto la fame, la sofferenza, il dolore, e se ne è affrancato con la sola forza di volontà e con l'aiuto di pochissimi esseri umani ancora in grado di distinguere la terra dalla merda, in un difficilissimo lavoro di indubbio coraggio intellettuale. In una nazione piccola come il belpaese, definito in questo lungo resoconto nella maniera più complessa e semplice allo stesso tempo che si potesse mai immaginare.

"L'Italia è un paese frivolo e nello stesso tempo protervo. Esso non pare avere né il dono della vera leggerezza né quello della profondità."

E sono riflessioni amare come queste che ci fanno avvicinare con un sorriso complice alle storie di questo manovale della scrittura, armato di carta e penna, come un muratore della cazzuola e del metro per prendere le misure a questa società tanto vuota e dell'apparenza spinta alle estreme, mortali conseguenze; una società muta, sorda, senza memoria, capace di navigare nella merda come un pupazzo con le narici cancellate dal tempo, assuefatto quasi irrimediabilmente all'olezzo di cui si inebria senza sosta, nell'attesa di fantomatici tempi migliori che mai arriveranno. E' arrivato quindi il momento del qui e ora ci avverte Moresco: basta aspettare infausti eventi per risollevare il paese, basta sperare in un messia qualsiasi, capace di vendere lavatrici come pure di acquistare case editrici e propinarci libri o programmi finto culturali. L'industria culturale invece, come la chiama efficacemente Moresco, ha bisogno di una terapia d'urto più rumorosa di un terremoto, in un impeto di vitalità che mal si addice alla pigrizia mentale di tanti advisor delle case editrici subito pronte a codificare, catalogare e inondare le teste pensanti, come una mano che ti battezza a morto e ti tiene in vita dall'alto del suo piccolo scranno. Siamo quasi come in un laghetto di allevamento con i girini che aspettano di crescere, ma la selezione controllata da pochi non permette a tutti di esprimere la propria personale visione delle cose. Troppo pericolosa, troppo insinuante la voce e lo status di uomo di Antonio Moresco. Semmai attuiamo una strategia silenziosa e logorante: prendiamolo pure per il culo, facciamogli credere che possa essere uno dei nostri, poi lo affoghiamo, solo per il gusto di vederlo agonizzante. Peccato che il suddetto sappia benissimo di quella cosa che si chiama lotta per la sopravvivenza, e quindi è impossibile vederlo crepare. La lotta per essere è di pochi a questo mondo; tutti gli altri possono stare sereni, non soffriranno, potranno dormire sonni tranquilli, nella bambagia, ma con una caratteristica che li segnerà per tutta la vita: la mancanza di dignità, e soprattutto di coglioni. Le amebe e i girini rimarranno tali; i ranocchi invece, noncuranti dell'allevatore, salteranno quando meno ve lo aspettate, il fosso e, girandosi verso di loro gli faranno marameo. Badate bene, non è una gara questa: è soltanto la sacrosanta lotta per esprimere la bellezza dell'uomo, perchè - credetemi - di brutture e merda, di fogne, ne è già traboccante il mondo... E Moresco non ha certamente bisogno di difensori d'ufficio, ma deve però sapere che al mondo c'è ancora qualcuno che non ci stà a farsi mettere sotto per quattro soldi in più, perchè si può vivere stoicamente in maniera decente e dignitosa anche esprimendo le proprie opinioni senza passare per squallidi programmi in prima serata a consigliare libri per le feste di Natale.
Grazie Antonio per queste pagine necessarie. Grazie anche a nome di tutti quegli invertebrati che popolano numerosi questa triste terra. Un giorno, forse, anche loro te ne saranno grati, quando ammetteranno di essere stati solo delle merdacce di fantozziana memoria. Chi se ne frega di quello che pensano i pensatori dell'ufficialità culturale: a noi interessa essere solo vivi, gli zombie hanno già fortemente colonizzato ed infettato il mondo, ce lo diceva chiaramente tanti anni fa un certo George Romero nei suoi un po' ingenui ma strepitosi films. A noi dunque il compito di disinfestare e bonificare il terreno, per renderlo ancora fertile. Queste lettere a nessuno come il testamento di una salvifica cultura della giustezza e della pacificazione; a futura memoria...

"L'umiltà, la radicalità, la fedeltà, la tenuta, la pazienza, lo spirito di sacrificio, l'intransigenza, la vera spregiudicatezza e passione, la capacità di soffrire e di dare frutto, di rischiare tutto anche a costo di perdere tutto."

Parole sante, finalmente...

sabato 18 aprile 2009

LA STORIA ANTICA DI LAURA ERBER


Accademia di Belle Arti di Brera Bayer per la Cultura

Associazione culturale Nuovo C.I.B.

presentano

Laura Erber

STORIA ANTICA



Nella Galleria Formentini, presso l’Associazione culturale Nuovo CIB (via Marco Formentini, 10 Milano), si inaugurerà il giorno



venerdì 17 aprile 2009 alle ore 19.00



la mostra dell’artista brasiliana Laura Erber dal titolo "Storia Antica". Realizzata con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti di Brera e col sostegno di Bayer per la Cultura, la mostra sarà aperta fino all’11 maggio (lun.-ven. 10.30 – 13.30, pomeriggi su appuntamento).



Laura Erber è un’artista multimediale, che lavora servendosi di diverse tecniche, dal video alla fotografia alla parola scritta al disegno. Il suo lavoro verte essenzialmente sul tentativo di rappresentare su un piano visuale le relazioni che intercorrono tra soggetto e linguaggio. Parola, immagine e corpo vengono messi strettamente in relazione dall’opera dell’artista brasiliana, che si muove nella stretta intercapedine tra il virtuale e il verbale, tra immaginazione e significato, tra azione e osservazione.



Laura Erber fa un uso molto particolare della parola scritta, un uso che pone la parola stessa completamente al di fiori di ogni prospettiva didattica. La parola esiste in forma spettrale, ricondotta a sé stessa e alla sua valenza propria e originale. Esiste in sé, non inserita in un sistema preesistente di significato. E’ anzi l’opera di Laura Erber a "restituire" un significato alla parola, ricontestualizzandola e, di conseguenza, rivitalizzandola, dandole per così dire una nuova esistenza a livello visivo e semantico.



La parola viene dunque trattata alla stessa stregua di un’immagine, ed è infatti proprio ad un’immagine che essa viene accostata nella video-installazione "Storia antica".



Con essa, Laura Erber ridà vita alla poesia di Alejandra Pizarnik (1936-1972), che si appunta sulla semantica della morte. La presenza della poesia nella video-installazione, ovvero in un’opera d’arte visiva, offre nuove possibilità di lettura e di significato. L’opera propone, attraverso una situazione plastica, l’allargamento dell’orizzonte del significato della scritura lugubre di Pizarnik.



L’installazione si pone dunque, tramite l’utilizzo di diverse tecniche ( video-proiezione, scrittura…) come una sorta di superamento dialettico. L’obiettivo di Laura Erber non è "rappresentare" la poesia, ma piuttosto offrire un’altra sperienza di lettura, rivelarla in una luce completamente nuova, sotto uno sguardo – quello del visitatore – che può essere coinvolto al massimo grado: egli può infatti anche sfogliare il quaderno-schermo, interagendo a tutti i livelli con l’opera, facendosi a sua volta attrarre e coinvolgere dal tremolante, ipnotico strato d’acqua sotto il quale guizzano il pesce agonizzante e le parole "spettrali" di Alejandra Pizarnik, così vicine e così lontane allo stesso tempo, stabili ed effimere, presenti ed eterne, tutte giocate sulla differenza – forse più sottile di quanto immaginiamo – tra la vita e la morte.

Nina Dias
Matteo Fontana

venerdì 3 aprile 2009

CARO FABRIZIO







Sono già passati 10 anni, Fabrizio, da quando te ne sei andato; il tempo corre via spietato e veloce anche quando ci si sente più tristi e soli.
Sapessi quante volte, Fabrizio, ho pensato a te in questi anni, così come, sono pronto a scommetterci, ti hanno pensato in tanti, tutto il tuo popolo di emarginati e sconfitti, di puttane e assassini, di ladri e poveri, di gente, avresti detto traducendo Dylan, “come tutti noi/ non mi sembra che siano mostri/non mi sembra che siano eroi.”
Ti ho pensato tantissimo ad esempio, in quei torridi giorni del luglio 2001, vedendo il corpo senza vita di Carlo Giuliani, e le terribili e gratuite violenze alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto. Che cosa avresti detto, quali meravigliosi versi avresti potuto regalarci vedendo la tua città, quella che tanto amavi perchè - dicevi- ti sembrava che avesse la faccia di tutti gli emarginati del mondo, umiliata e martoriata da quel Potere che ti faceva paura in quanto negazione dell’umanità? Mi piace pensare, Fabrizio, che se tu fossi ancora qui, gli arroganti sarebbero meno arroganti, i potenti meno potenti e più deboli perché non avrebbero mai potuto mettere a tacere la tua voce calda e suadente, inconfondibile come quella di un vecchio amico che anche se non vedi da 10 anni sai che è sempre lì pronto a confortarti con la commozione della musica e il magico calore della poesia.
E invece… quando penso a quest’Italia cosi spenta e triste, così ipocrita e qualunquista, pronta a bandire nuove crociate contro lo straniero e il diverso, solo i tuoi versi hanno la forza di restituirmi speranza per il futuro dell’umanità perché solo dal tuo immenso e inestimabile testamento culturale possiamo ricominciare a costruire un mondo finalmente a misura d’uomo.
Hanno invaso, Fabrizio, l’Afghanistan e l’Iraq, dimenticando il gesto di diserzione di Piero, la triste moglie dell’eroe “ che aspettava il ritorno di un soldato vivo e di un eroe morto che ne farà se accanto nel letto le è rimasta la gloria di una medaglia alla memoria” o il dolore della vedova di Vly “ che per mill’anni e forse ancor piangerà la triste sorte”.
Hanno negato persino il diritto alla morte a Eluana Englaro, e un rito funebre dignitoso a Piergiorgio Welby perché, proprio come era successo al tuo Michè “ di un suicida non hanno pietà”, scordandosi ancora una volta che “il suo bel paradiso Dio lo ha fatto soprattutto per chi non ha sorriso”. Hanno cioè dimenticato i tuoi insegnamenti amorevoli continuando però a usare il tuo nome come un vessillo, una bandiera, un alibi per lavarsi le loro coscienze sporche.
A questo proposito vorrei raccontarti la testimonianza di un ragazzo di Pordenone, tuo grande ammiratore e militante del centro sociale anarchico della sua città che con altri compagni anarchici si era recato nel 2001 con tanto di volantini a sostegno dell’internazionalismo e del solidarismo tra i popoli, ad una tua commemorazione organizzata dalla parrocchia locale. Ebbene: la sala del concerto era tappezzata da manifesti volti ad aizzare la cittadinanza contro il “ pericolo zingaro”, il ragazzo e i suoi compagni vennero fatti allontanare a suon di spintoni dai bravi parrocchiani perché infastidivano il pubblico con “ schifezze anarchiche”. Quando lessi di questa storia , Fabrizio, non volevo crederci; non potevo credere che si potesse propagandare la xenofobia attraverso le tue canzoni. Non potevo crederci, fino a quando anche a me non successe un fatto del genere, fino a quando non lessi per caso su un quotidiano nazionale che non merita la benché minima menzione, un articolo su di te, in cui si diceva testualmente ( sigh!) “ che negli ultimi anni della tua vita ti eri avvicinato alle posizioni politiche della Lega Nord.”
Quando superai il ribrezzo, la rabbia, la vergogna di vivere in un paese così poco rispettoso della memoria e della poesia mi sembrò di vedere tutto più chiaro, ancora una volta grazie ai tuoi versi immortali. Capì, proprio come il medico “ fui costretto a capire”, che la storia si ripete sempre uguale, e che ti era successa la stessa, identica cosa che era successa a quel signore crocifisso sul Golgota che tu definivi “ il più grande rivoluzionario di tutti i tempi” e cioè che il Potere, capendo che non avrebbe mai potuto cancellarti, cercava in tutti i modi di arruolarti tra le sue fila, cercava di deviare, diluire se non addirittura ribaltare il tuo pensiero e la tua poetica. E questo perché il Potere ti temeva, aveva paura di te, della libertà “ così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza” che per tutta una vita hai cantato. Esattamente come dicevi a proposito di quel santo anarchico di Gesù Cristo sulla via della Croce:
Han volti distesi già inclini al perdono
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola
incapace di nuocere ancora.
Il Potere vestito d’umana sembianza
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri piangono altrove
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via dalla croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come sé stesso.
D’altronde Fabrizio, non mi sembra più un paradosso che sia stato tu, ateo ed anarchico, ad insegnarmi, in barba a secoli e secoli di catechismo cattolico, il vero valore del cristianesimo e dell’eucarestia, cioè quello di “ versare il vino e spezzare il pane per chi(unque) dica ho sete, ho fame.”
Io non so se Dio esiste: ma sono convinto che se dovesse esistere, assomiglierebbe certamente più a te che non a tutti quei signori dalle lunghe tonache e dai portafogli gonfi che da 2000 anni benedicono i dittatori, si arrogano il diritto di decidere la vita e la morte altrui e bandiscono sempre nuove guerre nel nome di chi “ guerra insegnò a disertare.”
Grazie Fabrizio. Per tutto l’amore che ci hai insegnato e donato, per la poesia che ci hai lasciato in eredità, sperando, in fondo in fondo, che da essa possano nascere, come dal letame, i fiori più belli, quelli che hanno gli occhi rivolti al mondo e il cuore aperto verso i propri simili, quei fiori che tu avresti chiamato spiriti solitari o anime salve. Si, grazie Fabrizio per averci indicato la via difficile e tortuosa della salvezza, per essere stato per tutti noi non solo un maestro, ma un amico, un fratello, un compagno di giochi e soprattutto di vita. Grazie, come disse Don Antonio Balletto durante la tua omelia funebre, “per averci insegnato l’alfabeto dell’amore” di cui tanto avevamo e abbiamo ancora bisogno.
E perdonaci, se non riusciamo a pensare a te senza che le lacrime ci invadano gli occhi, senza che un senso di tristezza e impotente solitudine prenda il sopravvento su tutte le nostre parole più belle. Ma basta accendere lo stereo per comprendere che sei ancora con noi, con la tua voce levigata dalle sigarette e dal vino, con i tuoi versi e la tua musica, e soprattutto con il tuo cuore immenso e la tua ineffabile umanità. Per questo continuiamo e continueremo sempre a dirci: “ è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati.”




Fabio Monti