giovedì 28 maggio 2009

DJAHAZI di P. W. Tamburella















comunicato stampa

DJAHAZI di PAOLO W. TAMBURELLA


Padiglione dell'Unione delle Comore, Riva dei Giardini della
Biennale

Presso lo spazio acqueo davanti all`ingresso principale dei Giardini della Biennale
Bacino di S. Marco - Riva dei Giardini Pubblici - Venezia

Nell’ambito della 53ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di
Venezia
7 giugno – 22 novembre 2009


Per la prima volta l`Unione delle Comore partecipa alla 53ª Esposizione Internazionale d`Arte -
La Biennale di Venezia con il progetto Djahazi dell`artista italiano Paolo W. Tamburella.
Il Commissario è Wahidat Hassani.

orario: Apertura al pubblico dal 7 giugno
vernissage: 4 giugno 2009. ore 19

web:
http://www.djahazi.net/

email:
info@djahazi.net

La Djahazi è una barca tradizionale comoriana, per secoli il principale mezzo di trasporto di uomini e merci tra le Isole Comores e i paesi vicini come il Madagascar e la Tanzania, oltre che uno strumento prezioso per allacciare fondamentali relazioni commerciali e intrecciare sempre nuovi scambi culturali.

Nel 2006, a seguito della modernizzazione del porto affidato in gestione esclusiva a una società estera, l`utilizzo delle Djahazi è stato legalmente interdetto, interrompendo così l`attività dei trasportatori e delle loro barche e mettendo in serio pericolo un elemento portante dell'economia popolare e della memoria comoriana.

Nel 2008, Paolo W. Tamburella si è recato nelle Isole Comore per cercare di capire cosa fosse successo alle barche e ai trasportatori. Nel porto della capitale Moroni ha scoperto che le barche erano state abbandonate e stavano affondando.

Per circa un mese, l`artista e i dockers di Moroni hanno lavorato per rimettere in funzione una Djahazi con lo scopo di trasportarla a Venezia e di riconsegnarle, materialmente e simbolicamente, il compito di connettere le Isole Comore con il mondo.

Fin da subito, il progetto ha suscitato l'entusiasmo e l'interesse della popolazione locale che, capito di avere una possibilita` di comunicare un pezzo della propria storia identitaria e comunitaria di fronte al mondo, si è mobilitata attivamente, contribuendo al lavoro e alla riuscita del progetto e dando vita alle premesse per la prima partecipazione nazionale dell`Unione delle Comore alla Biennale di Venezia.

Prima di lasciare le Comore i dockers, protagonisti con Paolo W. Tamburella del recupero delle Djahazi, sono stati ricevuti dal Ministro della Cultura delle Isole Comore e intervistati dalla televisione nazionale : un ulteriore segno pubblico di “investitura” simbolica ai protagonisti.

«Con l’aiuto dei lavoratori di Moroni, Paolo W. Tamburella ha riparato e restaurato una delle ventotto imbarcazioni abbandonate nel porto, ma senza immettere nell’operazione alcuna ricercatezza antiquaria o spirito nostalgico. Al contrario, a Venezia questa imbarcazione – carica di container comunemente usati oggigiorno – diviene la metafora di una globalizzazione ambigua, che porta con sé speranza e rassegnazione [...] situazioni emergenti e situazioni di emergenza, in una sorta di favola premonitrice sulle nuove forme di ciò che consideriamo sacrificabile in un mondo di incertezze e transizione»

[Octavio Zaya, dal suo testo per il catalogo generale della Biennale. Octavio Zaya è Advisor del Museo de Arte Contemporáneo de Castilla y León, di Performa (New York) e co-direttore di Atlantica. Membro del NKA Journal of Contemporary African Art e corrispondente per gli USA di Flash Art, è stato uno dei curatori di Documenta 11, sotto la direzione di Okwui Enwezor]


L’esposizione è a cura di WAHIDAT HASSANI, direttrice nazionale del Ministero della Cultura,
della Gioventù e dello Sport dell`Unione delle Comore.

PAOLO W. TAMBURELLA
Paolo W. Tamburella (Roma, 1973) è un artista italiano che vive tra Roma e New York.
Attraverso l`utilizzo di diversi media tra cui il video, l`installazione e la “performance” Tamburella crea dei documenti e degli atti che indagano la globalizzazione e le dinamiche post-coloniali collegate alla modernizzazione. Tra le sue mostre: Wonder – Biennale di Singapore – 2008 ; Inscriptions – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Guarene d’Alba – 2007 ; Post - Cards – Stazione di S. Maria Novella – Firenze – 2006 ; Annina Nosei Gallery – New York – 2003 e 2001. Tra le mostre future: What remains, toward an aesthetic of disappearance – MUSAC – León – Spagna – 2010 ;How to – 11th Istanbul Biennial – Kumbaraci Yokusu – Istanbul – Turchia - 2009; Unsteady Balance – Yautepec Gallery – Mexico City – 2009

Titolo: DJAHAZI di PAOLO W. TAMBURELLA


Presso: Padiglione dell'Unione delle Comore, Giardini della Biennale
A cura di: Wahidat Hassane, commissario del padiglione
Inaugurazione: giovedì 4 giugno 2009, ore 19
Date: 7 giugno – 22 novembre 2009
Ambito: 53ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia

Per informazioni

web:
http://www.djahazi.net/

email:
info@djahazi.net

martedì 26 maggio 2009

AMANTE DELL'UMANITA' da 42° PARALLELO di JOHN DOS PASSOS


John Dos Passos (1896-1970)



Eugene Victor Debs (1855-1926)

Trascrivo un capitolo splendido tratto dal romanzo 42° parallelo di John Dos Passos.
D.D.A.

Debs era un ferroviere, nato in una baracca coperta s’assi a Terre Haute.
Era uno tra dieci fratelli.
Suo padre era venuto in America su un veliero nel ’49,
un alsaziano di Colmar; non troppo affarista, appassionato della musica e della lettura,
diede modo ai figlioli di finire la scuola pubblica e ciò fu pressoché tutto quel che poté fare.
A quindici anni Gene Debs lavorava già da meccanico sulla ferrovia Indianapolis-Terre Haute.
Lavorò da fuochista ferroviario,
fu commesso in un negozio
si associò alla sede locale della Confraternita dei Fuochisti Ferrovieri, venne eletto segretario, viaggiò per tutto il paese come organizzatore.
Era un uomo alto, dal passo strascicato, aveva un genere di oratoria burrascosa che infiammava i lavoratori ferrovieri nei saloni di tavole di pino
dava loro il desiderio del mondo che anche lui desiderava,
un mondo in mano di fratelli
dove tutti avrebbero fatto le parti uguali:
Io non sono un capopartito di lavoratori. Io non voglio che voi seguiate me o chiunque altro. Se voi sperate in un Mosè che vi conduca fuori del deserto capitalista, resterete lì dove siete. Neanche se potessi, io vi guiderei in questa terra promessa, perché, se io vi potessi condurre dentro, qualcun altro ve ne condurrebbe fuori.
Così parlava a facchini e guardiani di linea, a fuochisti, manovratori e macchinisti, dicendo loro che non bastava organizzare i ferrovieri, che tutti i lavoratori dovevano organizzarsi nella repubblica cooperativa dei lavoratori.
Fuochista ferroviario in tanti lunghi servizi notturni,
sotto il fumo un fuoco lo ardeva, ardeva nelle parole burrascose che scoppiavano nei saloni di tavole di pino; lui voleva che i suoi fratelli fossero uomini liberi.
Questo fu ciò che vide nella fola che lo venne a incontrare alla stazione di Old Wells Street quando uscì di prigione dopo lo sciopero Pullman,
furon quelli gli uomini che gli misero insieme nel millenovecentododici 900.000 voti e impaurirono gli abiti da cerimonia, i cappelli a cilindro e le ingioiellate padrone di casa di Saratoga Springs, Bar Harbor, Lake Geneva col babàu di un presidente socialista.

Dove erano i fratelli di Gene Debs quando nel millenovecentodiciotto Woodrow Wilson lo fece rinchiudere ad Atlanta perché parlava contro la guerra,
dove erano gli omaccioni ghiotti di whisky e ghiotti l’uno dell’altro, cari girovaghi raccontatori di storie su un banco d’osteria nelle cittadine del Middle West,
quei tipi pacifici che volevano una casa col portico per farci flanella e una moglie grassa a far la cucina, qualcosa da bere e sigari, un giardino da vangarci, qualche vecchio amico da far quattro ciance
e volevano lavorare per aver tutto questo
e che anche gli altri lavorassero per averlo;
dov’erano i fuochisti e i macchinisti ferrovieri quando lo impacchettarono a spintoni per il penitenziario di Atlanta?
E lo riportarono a morire a Terre Haute
a sedere nel portico su una sedia a dondolo con un sigaro in bocca,
accanto a lui rose American Beauty che la moglie gli aggiustava in un vaso;
e la gente di Terre Haute e la gente dell’Indiana e la gente del Middle West gli volevano bene e ne avevano paura e lo immaginavano come un bravo vecchio zio che li amava, e desideravano stargli insieme e ricevere da lui canditi,
ma ne avevano paura come se avesse contratto una malattia sociale, la sifilide o la lebbra, e ciò facesse loro troppo dispiacere;
ma per via della bandiera
e della prosperità
e rendere il mondo sicuro per la democrazia,
temevano di stargli insieme,
o di pensare troppo a lui per timore di giungere a dargli ragione;
perché lui diceva:
Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero.

John Dos Passos (1896-1970) da 42° prallelo, BUR, Milano 2003

domenica 24 maggio 2009

venerdì 22 maggio 2009

READING PER MASSIMO ROSSI

VENERDI 22 MAGGIO - ORE 18.00
CHIOSTRO DI SAN FRANCESCO - ASCOLI PICENO

*

READING DI POESIA MILITANTE
di DAVIDE NOTA e STEFANO SANCHINI (La Gru)

MOSTRA DI PITTURA
di QUINTILIO (TITO) PIERANTOZZI

ESPOSIZIONI FOTOGRAFICHE
di FABRIZIO DE FABIIS e DANIELE CIABATTONI

VIDEO-ARTE
di VALERIA COLONNELLA

MUSICA

*

Interverrà il Presidente della Provincia di Ascoli Piceno
MASSIMO ROSSI

martedì 19 maggio 2009

DERIVA - CINQUE POESIE INEDITE di DANIELE DE ANGELIS


- DERIVA -



Canto



Se la pioggia tarda e la terra si svuota,
Se la pioggia ritarda e il paese si svuota,
a quale gente canterò mai la mia storia?

***

Il pescatore



- Ci sta’ le volte che li ripeschiamo,
a tirare sulla barca le reti,
assieme a pesci e calamari
i morti... quelli dei barconi
e dei gommoni vecchi quanto il mare,
a fondo, sotto al peso della calca,
per la spinta in più di qualche onda... corpi
di negri arabi africani,
che chi sa quanti ne restano
a sparire sotto, tra sabbia e morsi... –

Non c’era vento a smuovere nulla
ne’ funi, ne’ spuma, neppure odori;
e allora l’acqua sulla tolda
sopra i pontili ed il molo, sopra la pelle,
gli sembrava in altre gocce camuffare
gli spazi certi del sudore, il sale
con il sale.

***

Il verbale



Adattati al contesto,
al buio delle finestre,
alla diffusa immobilità dei neon,
s’innescava un contrappunto
tra richieste, testa e braccia,
ammissioni e dinieghi scrupolosi
per determinanti conseguenze
d’inserimento dati.

|uno |due |tre
le dita distese dalla mano,
interpretavano al meglio i |||tre figli,
generati ad attendere in patria, battuti
nei campi vuoti del verbale.

- Trova confortevole, questa notte,
rispondere con gesti e versi
alle domande? dimenticare,
per un’ora, l’altra lingua
ed i suoi imbrogli? ma tanto,
signora, compiliamo solo prestampati. –

***

Il camion



La prima cosa ad apparire
fu il bianco immenso
del rimorchio transennato,
constatazione anticipata
di ciò che agli occhi si vietava.

- I corpi sono quattro,
morti disidratati,
distesi fianco a fianco
nel doppio fondo assieme agli altri;
dodici in totale, per quasi un giorno
di tragitto. –

Bevevano parlando poco
i sopravvissuti all’ombra,
a malapena i nomi, spesso falsi;
identificarli, dargli una patria,
un luogo di partenza, era la consuetudine
di una costante pratica.

(Giungere in seconda battuta
concede solo figurazioni difettose,
un viaggio a ritroso, senza discorsi o memorie)

***

La ritinteggiatura



All’improvviso a sniffare l’aria della stanza,
ritrovarsi come cani
ragionando ogni respiro,
cogliere il segnale familiare, immaginarlo
impresso sopra al muro
sotto intonaco e vernice;
un odore rappreso, umore
di neglette giornate.

(Questo appartamento
non ha mai conosciuto tanto sole
come adesso, vuotato e sfitto
d’ogni orpello); la luce come l’eco
sulle pareti piatte e bianche;
(da lucidare e spolverare
restano piastrelle e porte impiallacciate)

(Restasse vuoto, senza parole;
oppure occupato da marocchini
e senegalesi, cingalesi indiani
e nigeriani, cinesi e rom,
pachistani; tutte le stanze colme
fino all’eccesso, fino a coprire
di vesti e scarpe ogni minimo strapunto,
e sulla calce altri segni, altri raspi;
disabitato in un istante, in una notte,
prima delle volanti)


Daniele De Angelis

domenica 17 maggio 2009

LETTERA 22, UN DOCUMENTARIO SU A. OLIVETTI











TITOLO: Lettera 22
DURATA: ‘50min
FORMATO DI RIPRESA: minidv




Progetto: fase di realizzazione
Produzione: plug_in
Progetto realizzato con il sostegno di Ordine degli Architetti PPC di Genova, AXA Assicurazioni





[...] “la linea dritta della Serra, il corso inquieto della Dora, lo scenario di fondo coi monti amati della Val d’Aosta, poi, nel mezzo i prati verdi, i campi di grano, i faticati vigneti, attorno ai Paesi percorsi una, dieci, cento volte”[…] Sin che si muoveranno nel paesaggio del canavese le idee di Adriano Olivetti, marceranno tra la gente e si incarneranno in realtà viventi, al di là dei confini piemontesi spesso non saranno pienamente comprese.
Un documentario quindi può essere utile proprio per comprendere il pensiero e l’opera di Adriano Olivetti, non limitatamente alla mera prosecuzione di una tradizione familiare iniziata da suo padre Camillo, ma soprattutto come iniziatore di una politica industriale innovativa nell’Italia del dopoguerra. L’indagine conoscitiva vuole inserirsi tra il ritratto dell’uomo e la figura dell’industriale, spesso inscindibili, che agisce tra i politici, gli imprenditori e gli intellettuali dell’Italia del boom. Restituire attraverso le immagini, l’ideale di una “fabbrica concepita alla misura dell’uomo,di un industrialismo che sia uno strumento di riscatto del lavoro e non un congegno di sofferenza”. Una fabbrica in cui non è mai stato chiesto a nessuno “a quale fede religiosa credesse, in quale partito militasse e da quale regione d’Italia provenisse” queste le parole che Olivetti pronunciava nel ’54 sempre mosso, fino alla fine dei suoi giorni dall’ideale di conciliare l’uomo e la fabbrica. Per questo riunisce i migliori architetti ed urbanisti del suo tempo: Figini e Pollini, Gardella, Zanuso, Ridolfi e Frankl, Fiocchi, Vittoria, Kahn, Le Corbusier ecc... perché “ la luce della verità risplende negli atti non nelle parole”.
Ivrea diventa motore di un'imprenditoria rinnovata, attenta alle esigenze dei lavoratori non solo in ordine alle acquisizioni materiali, ma a tutt’oggi caso unico in Italia, promotrice di accrescimento culturale e spirituale. Il tanto vituperato “padrone” per una volta è amato, stimato dai suoi operai, non solo perché uomo di fabbrica, che conosce la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, ma è soprattutto fautore di un radicale rinnovamento socio-industriale. Costruisce alloggi per i lavoratori, riduce la settimana lavorativa a cinque giorni, realizza per le donne lavoratrici aiuti concreti: asili, colonie marine e montane, supporto pediatrico, assistenza sociale. Durante le lunghe pause pranzo, non c’è la palestra dove sfogare le proprie frustrazioni come avviene oggi, ma la lettura presso la biblioteca di fabbrica che dispone ben di 90000 volumi tra cui scegliere; il centro culturale organizza incontri pubblici con politici come Salvemini, Ernesto Rossi, con filosofi come Abbagnano e Bobbio, con scrittori e poeti come Cassola, Eco, Rodari, Montale, con artisti come Bruno Munari. Tutte le declinazioni dell’arte e della cultura sono prese in considerazione: si invitano gruppi musicali, il cineforum proietta film d’essai, si editano riviste di architettura, filosofia ed arte. Olivetti è stato il primo in Italia a operare da industriale su un piano sociale, a battersi contro l’accentramento delle metropoli, a creare spazi di fruizione della cultura “alta” all’interno della fabbrica. E’ questa unicità che intendiamo mettere in luce attraverso il nostro lavoro documentario, restituendo attraverso le immagini l’ideale di una fabbrica concepita alla misura dell’uomo. Le immagini a distanza di così tanti anni vogliono mettere in luce il suo impegno nel suscitare energie intellettuali al servizio di nuove scienze e culture. Sarebbe riduttivo limitare l’opera di Olivetti a un mero riformismo industriale, è necessario riappropriarsi attraverso le sue opere del suo spessore intellettuale che l’Italia di allora e di oggi stenta a riconoscergli. Attraverso le interviste a chi ha lavorato a stretto contatto con lui ne ha condiviso gli ideali e ha contribuito ad attuarne lo spirito riformatore comprenderemo meglio ciò che ha rappresentato l’alternativa olivettiana. Guardandola per ciò che è stata, tolta dall’insieme cui appartiene, scomponendola fino ad osservarla attraverso lo sguardo di chi ne fu l’artefice. Solo così restituiremo ad Adriano Olivetti i suoi meriti, il giusto valore imparandone la lezione. Forse trasmetteremo anche allo spettatore distratto la forza che hanno gli ideali quando sono incarnati da uomini che elaborano un sistema di pensiero e attuano progetti per la loro COMUNITA’. Facendo diventare il suo, un sistema di riferimento nazionale, svincolato dalla piccola patria del canavese dove la personalità creativa di Olivetti trova agio nell’elaborare e costruire la sua proposta totale di organizzazione della società. La COMUNITA’ fulcro del pensiero olivettiano che noi vogliamo mettere in luce attraverso le opere architettoniche, urbanistiche, economiche, sociali, culturali diverrà così un’idea di comunità globale intrisa di un profondo senso etico.
L’architettura si legherà così ai bisogni profondi dell’uomo, quando avrà come committente la COMUNITA’;
l’urbanistica diverrà un ricostruzione culturale che può attuarsi in una misura umana e democratica;
il decentramento industriale fautore di un nuovo equilibrio tra agricoltura e industria capace di restituire all’uomo la perduta armonia.
Questo vasto sistema di pensiero e le attuazioni concrete che esso ha avuto basterebbero, in apparenza ad assicurare a Olivetti un posto di rilievo in un’ideale galleria dei maggiori. Eppure, in questa galleria il ritratto di Olivetti non riesce a fissarsi durevolmente, forse schiacciato dal successo industriale, egli rimane un profeta inascoltato. Le immagini della sua Ivrea, di come l’ha plasmata, le interviste con chi gli è stato vicino come la figlia e i collaboratori che ne hanno condiviso gli ideali ci permetteranno di ricostruire la figura di un intellettuale che ha dato realizzazione compiuta alle sue idee e che merita di entrare a pieno titolo nella storia, non solo industriale, del nostro paese.


NOTE DI REGIA

Percorriamo via Jervis a Ivrea, luogo motore del pensiero olivettiano. La via prende il nome da un uomo che lavorò nella fabbrica di mattoni rossi e proprio qui sorgono gli stabilimenti Olivetti. Sorvoliamo con lo sguardo questa piccola patria: il canavese, un brandello di territorio che per circa 35 anni sotto la guida di Adriano Olivetti diventa laboratorio di idee ed esperienze. Le conosceremo attraverso le interviste alla figlia che non solo ci parlerà dell’innovazione industriale attuata dal padre, ma ci tratteggerà la complessa personalità di un uomo mai sazio di conoscenze, ricco di interessi, urbanista e politico militante, editore, “progettista” di un modello di società che solo in parte riuscirà ad attuare. Daremo voce anche ad alcuni suoi collaboratori (Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Luciano Gallino, Filippo Tronco, Piero Salvetti) che quotidianamente si confrontavano con lui e contribuivano ad attuarne le idee. Vedremo la realizzazione concreta di questo progetto di COMUNITA’: gli stabilimenti, le case per gli operai, gli asili, le colonie, i negozi…che ci verranno illustrate da alcuni dei progettisti ancora in vita (Annibale Fiocchi, Eduardo Vittoria, Aimaro Isola), che hanno dato forma allo spirito creativo di Olivetti. Parleremo con le donne e gli uomini che hanno lavorato alla Olivetti, con chi oggi ha letto e analizzato il pensiero di Adriano.Ci aiuteranno anche le immagini di repertorio in cui lo stesso Olivetti e alcuni tra i suoi più stretti collaboratori ci restituiranno la grandezza di quegli ideali. Ritorneremo così a Ivrea dove tutto è iniziato nel lontano 1908 e chiederemo oggi dopo un secolo cosa rappresentano ancora, per questa città e per la COMUNITA’ che la popola, le idee e le realizzazioni di Adriano Olivetti…

venerdì 15 maggio 2009

EVA SEUFERT - DAS VERSCHWINDEN DER GEGENWART - FUORIZONA ARTECONTEMPORANEA, MACERATA


dal 16 maggio al 30 giugno 2009
inaugurazione 16 maggio ore 18:00
fuorizona artecontemporanea
via Padre Matteo Ricci, 76 - 62100 Macerata
www.fuorizona.org
fuorizona_ac@yahoo.it
orario: dal martedi al sabato 16-20


Le campiture sature di colore si trovano vicine a tracce esili, come aloni lasciati da un passaggio. Eva Seufert, nei disegni, nelle piccole tele, negli interventi installativi in mostra, sembra voler affermare una presenza. Un lavoro che si avvale dei medium più vari, in un fare di costante sperimentazione pervaso dal fervore della scoperta, mosso dalla volontà di rivelare il reale. Un tentativo di costruire e di mostrare che si dissolve nel bianco assoluto, si arrende davanti all’apparenza visibile delle cose. Una ricerca intensa, che si fa continua, instancabile e necessaria, ma che finisce insistentemente per constatare un’assenza.
Painted fields saturated with color alongside faint marks, like halos left by traffic. Eva Seufert, in her drawings and small canvases, in her installation-like interventions, wishes to declare a presence. Her work utilizes various mediums in constant experimentation, permeated with a fervor for discovery in an attempt to construct and demonstrate how to dissolve in absolute white, surrendering in the midst of the visible appearance of things. Hers is an intense research, tireless, continuous and necessary yet consistently ends by verifying an absence.

Eva Seufert (Frankfurt/Main, Germany, 1966) si è diplomata alla Kunstakademie Karlsruhe nel 1998, ma avendo alle spalle studi in medicina all’Università di Heidelberg ha lavorato come dottore in neurologia e psichiatria nella stessa Università fino al 1999. Tra le mostre personali: 2006, Wiensowski&Harbord (Berlin); 2007, Institut im Gelaspavillon der Volksbühne Rosa-Luxemburg-Platz (Berlin); 2008, Máquina de Ilusión, Linea (La Habana, Cuba), 2009, Fuorizona artecontemporanea (Macerata, Italy). Tra le mostre collettive: 2009, Diesseits der Alpen: Hunger, Jenseits der Alpen: Durst, Hadlichst.44 (Berlin); 2008, Autocenter (Berlin); 2007, Kasbah Museum (Tanger, Morrokko), Kunstraum Innsbruck (Austria); 2006, Viewing Club, Uxbridge Arm (London), Secession Wichtelgasse (Wien), MÖMA, Mönchengladbach (Germany). Vive e lavora a Berlino.

lunedì 11 maggio 2009

NEL SEGNO DI SALVADOR

Segnalo, avec jolie...
G. P.



“Io non sono pazzo”

di Pier Mario Fasanotti e Roberta Scorranese
Il Saggiatore, 2004, euro 18


L’unica differenza tra me e un pazzo, è che io non sono pazzo.”

Salvador Dalí


Deliri psichedelici di oniriche follie, echi di memorie reali e costruite dall’eccentricità del genio.

Dal saggio biografico di Fasanotti e Scorranese si evincono le innumerevoli passioni di Dalí: pittura, teatro, moda, cinema. In tutte le espressioni artistiche diluiva i suoi sogni, i suoi picchi di follia. Un happening giornaliero scandiva le ore del suo molle orologio.

Creatore del metodo “paranoico-critico”, interpretazione daliniana del surrealismo, attraverso cui il pittore trasferisce su tela il proprio inconscio nel suo momento di delirio paranoico, Dalí cercò sempre di "dilatare lo sguardo col potere dell’immaginazione per vedere meglio la realtà e oltre la realtà".

"Il sogno restava il grande vocabolario del surrealismo e il delirio il più splendido strumento d’espressione poetica (...) quando si è surrealisti, bisogna essere coerenti: ogni tabù è proibito."

Non si può certo parlare di tabù quando si ricordano le eccentriche feste che organizzava, sempre circondato dalla sua “corte”, illustri intellettuali internazionali, con cui s’intratteneva con numeri shockanti, d’effetto e vouyeristici.

La sua vita, scandita tra eccessi e stranezze, fu attraversata da grandi personaggi del calibro di Picasso, che definiva suo mentore ma non ne condivideva l’arte e nemmeno l’orientamento politico, Garcia Lorca, grande amico e forse amante, Buñuel, con cui condivise alcuni esperimenti cinematografici, e tanti altri.

In tutti i suoi esperimenti che toccarono la pittura, il cinema, i balletti, la moda e l’invenzione di strani oggetti, era sempre riconoscibile la sua ossessione per i sogni, per l’inconscio. Lì, diluiva i suoi colori e dentro si sé intingeva il pennello creativo, credendo che "solo attraverso il sogno é possibile vedere il mondo".

Un libro labirintico, un viaggio nella vita di un artista che ha fatto parlare di sé per oltre venti anni. La penna di Fasanotti e Scorranese scivola sinuosa e chiara tra le pagine, testi intrisi di citazioni, fili di Arianna tratti dal diario del genio ed incorniciati da un chiaro quadro storico di riferimento.

Lo si definiva pazzo, lo si definiva genio, ma nei suoi momenti di lucidità/debolezza sosteneva che: "La pubblicità è essenziale al mio personaggio: al mondo ci sono troppi pittori, e anche bravi (...) Di conseguenza io sono uno studioso delle leggi della pubblicità, la quale è direttamente proporzionale al successo. Sentir dire che io sono pazzo è per me causa di infinta delizia". Una maschera allora? Un personaggio fittizio? Un burattino alla mercé della moglie “cacciatrice di assegni”? O potrebbe essere stato solo un semplice uomo avvolto dal mantello della solitudine e dell’inadeguatezza intellettuale, un genio incompreso, che cercava di sopperire a tale disagio attraverso la sua eccentricità artistica?

Un enigma che resterà irrisolto, proprio come Dalí avrebbe voluto.

Liliana Navarra





domenica 3 maggio 2009

LA LATENZA DELLO SMARRIMENTO - OGGETTI SMARRITI di ANDREA TOSTI


Descrivere il ritrovamento di oggetti perduti o dimenticati, è indagare la latenza dello smarrimento. Oggetti smarriti (PDC Editori), opera prima dello scrittore Andrea Tosti, pone il lettore nel mezzo di tale sospensione. Le cose giungono nel chiuso di un “fortino/magazzino”, dove la luce è puro neon, e dove burocrati incasellatori lavorano giornalmente per catalogare il tutto. Un “mondo” che potrebbe benissimo rappresentare un “paradiso” aristotelico, dove ogni oggetto trova una sua precisa locazione e tassonomia, affinché la struttura amministrativa non vada in corto circuito. Un luogo esclusivamente maschile, quindi sterile, nel quale gli impiegati non soltanto lavorano ma vivono. In sostanza un bunker, metafisico se si vuole, ma pur sempre un isolato rifugio, dove oggetti si accatastano ordinatamente entrando in una dimensione “fluttuante”. Sembra quasi di assistere all’infinita preparazione di un’arca biblica o, per il senso di deriva e perdita, un’arca russa sokuroviana. L’uomo salva ciò che per entropia finirebbe nel nulla di un tempo tanto presente da sembrare assente, summa di se stesso, così che gli oggetti smarriti non sono semplicemente presenti, contemporanei, ma di ogni epoca e cultura, quasi che l’esterno sia effettivamente il mare immaginato da Sokurov attorno all’Ermitage.
La cosa perduta è, nelle mani di Andrea Tosti, il pretesto per descrivere l’esistenza in una terra di nessuno, un non-luogo in attesa di un soffio vitalizzante. Gli oggetti giungono e sono riconosciuti ma tutto si ferma qui; il resto sono supposizioni, fantasticherie su vite assenti, sul passato di materiali inanimati nelle esistenze degli altri, quelli che sono fuori, sempre che ci siano. Sì perché la scrittura di Tosti è sottile e autarchica, auto generante e auto giustificante, capace cioè di creare un “mondo” claustrofobico eppure completo, tanto che nel proseguire pagina dopo pagina, ci si dimentica di trovarsi in una confinata riserva. Il romanzo si apre spesso a scene di una quotidianità singolare, nelle quali gli impiegati si ritrovano la sera assieme, in uno dei loro appartamenti, per bere e chiacchierare, discutere e congetturare, ossia vivendo una convivialità integra nella propria essenza, anche in un luogo come lo sterminato magazzino. Andrea Tosti ci mostra l’importanza della parola, che dalle sponde aride della catalogazione, si muove verso le terre ricche dello scambio tra uomini. La parola, in questo romanzo, evidenzia il proprio valore per sottrazione di azioni, circoscritte alla ripetitività del lavoro di incasellatore, affermando, in tal modo che, laicamente, l’uomo è la parola ed essa risiede in lui.

Fin qui i luoghi, gli uomini, il mestiere e le strutture ma il romanzo, essendo un romanzo, innesca di per sé una narrazione e quindi una storia. E le storie spesso nascono nella mente dello scrittore da domande, tipo: “e se tra gli oggetti smarriti arrivasse un giorno anche un neonato?”. A questo punto il bambino non può far altro che apparire nelle pagine del libro. Avviene, infatti, che la monotona quanto tranquilla esistenza dei burocrati, venga stravolta dall’arrivo di un poppante, subito affidato/incasellato ad uno degli impiegati, che da quel momento, come per immacolata concezione, diventerà padre. Un padre atipico, in un mondo atipico, con un figlio atipico; un figlio dimenticato, smarrito (abbandonato?) nel mondo e dal mondo, relegato ora nel magazzino, posto non certo adatto all’infanzia ma sicuramente ben disponibile alla crescita intellettuale, data la grande quantità di cose a disposizione. Ed è in questo rapporto tra padre educatore e figlio educando, che gli oggetti, i concetti, le opere, incominciano a riprendere vita e senso, ridiventando finalmente, dopo anni, parte della vita dell’uomo.

Andrea Tosti con una scrittura sempre attenta, memore di quella scientifica del ‘700 come di quella allucinata di autori novecenteschi quali Kafka o Vonnegut, oppure quella barocca di Borges, dove l’eccesso della mente e della scienza apre le porte al paradosso e all’impossibile, è abile a innescare i meccanismi del dubbio e della suspense, in modo naturale, ancora una volta con una domanda: “ma fuori cosa ci sarà?”. Cresciuto, infatti, il ragazzo ha appreso molto e si rende conto che la sua formazione è avvenuta su materiali provenienti da un altrove che ora lo tenta. Il sapere veicolato dalla parola, scritta e orale, svela anche il proprio lato meno rassicurante, quello dell’ignoto da sfidare; il ragazzo è ora un novello Odisseo o un Colombo, con una visone altra della vita e del mondo, incomprensibile per tutti ma indomabile.

L’oggetto/ragazzo lentamente appare come il più consapevole delle strutture interne del sistema, delle regole e dei regolamenti alla base del magazzino, ciò lo spinge a travalicare lo stato di latenza di essere smarrito e quindi inclassificabile, non essendo una cosa, un dipendente o un dirigente. Attraverso la conoscenza, lo scambio di sapere con il padre e i suoi compagni, il ragazzo non semplicemente cresce e si fa adulto ma si autodetermina come uomo, anche se questo significa rinnegare il mondo, per assumere il proprio ruolo in esso.

Oggetti smarriti di Andrea Tosti, è quindi un romanzo complesso, che si interroga sull’essere delle cose, delle persone, dei rapporti e dei nomi, con la consapevolezza che il “tutto” può esistere solo al cospetto dell’”altro”, assente o presente, e che i ruoli sono soltanto definizioni soggette a mutazioni.


Daniele De Angelis



Andrea Tosti, Oggetti smarriti, PDC Editori, 2009 - www.pdceditori.it