lunedì 28 novembre 2011

PER IL DEBITO E IL "RENDIFITTO" EUROPEO? ATROPO!

Per il debito e il "rendifitto" europeo? Atropo!
[di Nino Contiliano]


Le cause del debito sovrano europeo sono le stesse della crisi economico-finanziaria mondiale, la crisi cioè che è (si dice) di più vaste proporzioni rispetto a quella micidiale del ’29, in quanto, rispetto all’estensione di questa, è globale. La vera causa è, però, il modello capitalistico che nella provocazione delle sue crisi cicliche trova la sua fenice e la possibilità di mettere in atto la sua guerra di classe (permanente) con più aggressività e acredine. Cinico e ormai mondializzato, persegue i binari del profitto e dei saggi di profitto con la razionalità di una retta senza scarto, e senza una vera opposizione che non sia quella dei movimenti sociali diretti e plurali che vogliono la restituzione di ciò che loro è stato tolto e il pensionamento della classe politica che ne gestisce l’ordine classista.
Oggi tempo dell’economia dell’immateriale, come dicono gli economisti, sembra che il profitto sia stato sostituito dalla rendita finanziaria o da un connubio e una sintesi che potrebbe stare bene nel conio di un neologismo ironico: il “rendifitto”. Perché il capitale (transnazionalizzatosi) opera con logiche plastiche, capaci cioè di mimetizzarsi, adattarsi, proporsi e imporsi coniugando, per una succinta indicazione, vecchio e nuovo: fordismo e postfordismo.
Nonostante il ritorno dello spettro (J. Derrida, e non solo) del “comunismo” o di una ventata del risveglio oppositivo e antagonista, la sua egemonia e la sua forma di vita rimangono un gioco, e le sue regole sono decise e amministrate solamente dai suoi protagonisti borghesi e liberisti.
Il conflitto sociale, dove c’è o è possibile esercitarlo, e senza essere criminalizzati, pur per l’esercizio del semplice e sacrosanto diritto alla critica, si mantiene sempre entro gli steccati (di ogni ordine) decisi e controllati dai detentori del capitale. I soggetti cioè del potere costituito che dominano il mondo del lavoro (vedi: la liberalizzazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni, la socializzazione delle private perdite capitalistiche o “keynesismo” finanziario...); i soggetti che hanno svenduto le istituzioni politiche pubbliche (pur repubblicane) – facendone limitare le sovranità e le funzioni di autonomia politica decisionale – per passare la mano a organismi privi di base elettiva come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale (Bm), il Wto (organizzazione e controllo del commercio mondiale), le multinazionali, le holding, etc.
E la stessa Banca economica europea (Bce), fuori di ogni sorta di unitarietà politica europea e di una governamentalità comune, non ha logiche diverse (poco importa se è stata creata per tenere i pareggi di bilancio e curarsi dell’inflazione). Basta vedere il boccheggiamento degli Stati dell’eurozona. Stritolati dalla crisi e dal debito sovrano sono piegati ai suoi diktat, i quali sono ligi solo alle logiche astratte e algebriche del finanziarismo da macelleria messicana. Gli ordini della Bce impongo politiche d’austerità e tagli che penalizzano senza deroghe o armistizi il mondo del lavoro e la vita di milioni di persone indifese (“macelleria sociale”, sorella della “macelleria messicana”, solo per sintetizzare con una metafora piuttosto chiara circa il senso della guerra e delle strage destinate al sociale). Non c’è uomo politico al governo o all’opposizione fantasma che non dica: lo vuole l’Europa. E l’assurdo è che l’Europa non c’è. È solo un nome.
L’Europa rapita da Giove aveva almeno un corpo e una identità riconoscibile!
Un’Europa unita (Eu) non c’è, e tuttavia detta ordini; non vuole conflitti e chiede, tramite i suoi tesorieri, esperti discutibili, sacrifici oggi per un futuro (non si sa quando) migliore! Il migliore che è poi la ripresa capitalistica e un po’ di agio, ma non per tutti e all’orizzonte del solito sfruttamento delle masse, del lavoro subordinato, dei poveri e dei Sud del mondo.
Le lotte classiche antagoniste di classe, nonostante le alterne vicende, fuori e dentro l’Europa, hanno finito sempre per soccombere, adattarsi e rimanere subordinate sempre alla logica della produzione, della produttività e della riproduzione capitalistica, il cui primo e ultimo scopo era ed è solo l’accumulazione, la riaccumulazione, il profitto, i saggi di profitto... e non la caduta tendenziale del saggio di profitto.
I periodi di certa prosperità e distribuzione della ricchezza – sempre inegualitaria e a danno delle popolazioni dei Sud (si ricordano i grandi investimenti del mondo civilizzato, i presti avuti e il debito contratto e non pagabile per gli alti interessi che triplicavano più che mai il capitale d’investimento) – e dei paesi che ieri si chiamavano in via di sviluppo (alcuni dei quali oggi invece conoscono la crescita e lo sviluppo, mentre l’Europa piange) non hanno mai messo in discussione il capitale e la sua logica sfruttatrice di classe.
L’agio diffuso del passato, in generale, è stato il risultato di un compromesso tra le lotte dei salariati e degli stipendiati (organizzate e disciplinate sempre dagli organismi di rappresentanza) e il potere del capitale, che ha avuto il governo sempre nelle sue mani e mai mollato. Un governo che fra crisi e guerre si è mosso con tattiche e strategie utili al mantenimento e alla riproduzione di questo potere, dei suoi privilegi e di quelli dei suoi garanti. Il resto ha dovuto accontentarsi di ben poco rispetto alle ricchezze accumulate dai pochi (si dice che il loro numero sia tra i 350/250, e che la ricchezza di ciascuno sia più di quella di dieci Stati africani messi insieme).
Oggi dobbiamo espropriare questa ricchezza e restituirla ai suoi legittimi produttori per uno sviluppo che sia libero dal capitale ed egualitario, e con una guerra di classe che abbia le cesoie di Atropo affilate dall’ “odio” della “letizia” spinoziana, lì dove l’aumento della potenza d’essere, cui ciascuno e tutti hanno diritto, è minacciato e aggredito come nemico dalla logica poliziesca e finanziario-militare dell’egemonia capitalistica e delle sue finalità predatorie private.
I flussi finanziari globali e italiani, come i debiti sovrani, sono controllati dalle banche e dalle società finanziarie, e queste si contano sulle dita delle due mani. Sono dieci, oggi, le “società finanziarie che controllano tra il 70% e il 75% di tutte le transazioni finanziarie e di tutti i flussi finanziari globali; non trattano soldi loro, ma trattano i nostri risparmi e quote salariali che, in maniera più o meno forzata, vengono canalizzate sui mercati perché svolgono forme di assicurazioni sociali non universali, inique, distorte [...] non dobbiamo dimenticare che l’87% del debito pubblico italiano è detenuto dalle banche e dalle società finanziarie, non è vero che è detenuto dalle famiglie. Con questa dinamica solo il 13% delle famiglie italiane – di ceto medio-alto – utilizza l’acquisto di titoli di Stato come forma di risparmio. L’87% è in mano agli speculatori, il 55% del debito è detenuto all’estero; [...]” [1].
Così le guerre di aggressione neocoloniali (sotto il nome di guerra al terrorismo o per l’esportazione della democrazia e dei diritti universali), come le stesse guerre monetarie, scatenatesi tra il BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e l’eurodollaro, compresa la moneta giapponese, non hanno altro fine che il mantenimento del capitale e della sua logica sfruttatrice economico-finanziaria, presunta sana (oggi come ieri giocata sullo scacchiere della competizione e della contrattazione dietro paraventi affatto credibili o paventanti penuria, miseria, assalti reazionari e medioevi prossimi venturi...).
Non esiste però un’economia capitalistica reale (sana) e una speculativo-finanziaria o irreale (cattiva e corrotta). Le analisi e le documentazioni delle opere di K. Marx, che ha individuato la periodicità delle crisi capitalistiche, e quindi del rilancio delle riaccumulazioni e dei profitti, – e solo per dire che il passato ha già i suoi lettori e analisti accorti, – a tal proposito sono abbastanza chiare.
Ma non mancano analisti che sanno dell’evoluzione del capitalismo e della complessità che non poteva avere ai tempi di Marx. Sagaci e accorti, sono lì dove vedono che le crisi attuali – a danno e/o misconoscimento e disprezzo di una economia d’uso e proporzionale – nascono con le speculazioni (“futures”, titoli tossici, stock options, etc.) e lo sviluppo basato più sull’indebitamento (cosa inesistente nell’Ottocento di Marx) e una sovrapproduzione di merci non smaltibili (per varie ragioni).
Il pensiero di Marx rimane tuttavia profetico ed è per questo che è riattivato. Scende dalla soffitta, e non più solo commemorato dai fedeli o quale uomo di un’epoca che fu.
Non è un caso, se dalla crisi del 2008, infatti l’uomo di Treviri è diventato non più uno “spettro”, ma una fonte viva e consistente di consultazioni da parte di studiosi e teorici di filosofia politica teorica e pratica. Persino alcuni capi di governo, per uscire dalla crisi e dal debito, – e che nonostante tutto ripropongono le stesse ricette che li hanno provocati, – vi cercano rimedi, e si fanno fotografare (Nicolas Sarcozy) con il Capitale di Marx.
Ma per tornare alle guerre di classe del capitale, dei suoi proprietari, dirigenti, amministratori o “procuratori” in carica nelle istituzioni dello Stato liberal-repubblicano e sedicente democratico; alle guerre guerreggiate anche con terrorismi e guerre di vecchio e nuovo tipo, non è un caso che la guerra sia l’unico bilancio che – nonostante le politiche di austerità e di solidarietà nazionale (di quale Nazione poi si parli non si sa, se negli ultimi vent’anni all’Italia sono stati fatti assumere le insegne dell’Impresa e dell’Azienda) – non conosce tagli o volontà di dismissione, o di riconvertire ad usi pacifici l’industria pesante.
Senza avere gli ultimi aggiornamenti, ma è abbastanza sintomatico, il dato sull’ammontare del bilancio militare è questo: le spese militari Usa-Eu, secondo le notizie in circolazione, sono dell’ordine di 800 miliardi di dollari all’anno (tre miliardi euro al giorno); 424 pro capite, e in Italia pari al 2% del Pil.
L’ultimo dato – riportato da Danilo Zolo sulla scorta dei calcoli in miliardi di dollari, fatti dal New York Times dopo l’11 settembre – a proposito dei “costi bellici Usa” [2] – è (riportiamo solo il totale, ma c’è anche uno specchietto analitico) è di 297. 600.000 (duecentonovantasettemliardiseicentomilioni di dollari.
Dall’altro i bilanci del sociale e del mondo del lavoro invece devono sottostare a politiche di governo sempre più austere, restrittive e di aggiustamenti strutturali che puniscono la popolazione e le masse (rese sudditi imbavagliati e ligi alla soggezione).
Ma persino un uomo come Henry Kissinger (premio nobel per la pace!?) – ex segretario di stato americano e non certamente uno stinco di santo, se è stato lo stratega americano che ha aperto la strada alla dittatura di Pinochet nella terra di Salvador Allende –, nel 1989, “a proposito dei piani di aggiustamento strutturale imposti ai paesi latinoamericani, affermava: ‘Nessun governo democratico può sostenere l’austerità prolungata e le compressioni di bilancio dei servizi sociali richieste dalle istituzioni internazionali’. E ciò, tanto più in quanto, essendo i vecchi prestiti in parte coperti da nuovi prestiti, il debito continua a crescere nonostante i rimborsi: nel 2009, i poteri pubblici dei paesi in via di sviluppo avevano rim­borsato l’equivalente di novantotto volte quanto dovevano nel 1970. Nel frattempo, il loro debito si era moltiplicato per trentadue”[3].
L’associazione “Sbilanciamoci”, riferendosi, per esempio, alla Finanziaria (italiana) del duemilasei, rendeva noto che dai 474 milioni per la difesa si era passati ai 600 per la missione in Iraq e 360 milioni stanziati per la Nato; che in Italia abbiamo una spesa pro capite annua di 366 euro per le spese militari e solo 18 per l’assistenza sociale, senza contare lo scandalo “dell’8 per mille destinato allo stato per finanziare le missioni italiane all’estero”; che a fronte dell’aumento continuo delle spese militari, sono diminuite invece quelle per la cooperazione e lo sviluppo; che ci sono spese extra-bilancio come fondo di riserva e pari a un (1) miliardo per le “missioni all’estero”; che il costo dei 6 caccia bombardieri Eurofighter (che l’Italia costruisce) è l’equivalente del bilancio annuale per l’assistenza ai disabili, ai minori a rischio, ai tossicodipendenti, ai non autosufficienti, ai disoccupati; che la nave da guerra e portaerei Cavour costa da sola ben quattro volte l’intero Fondo nazionale per le Politiche sociali, e cioè 4 miliardi di euro.
Si trova pure così, e senza badare a lacrime e sangue, il denaro per salvare il deficit delle banche e del sistema finanziario in genere. E le somme sono da capogiro! Per quel che trapela, l’ammontare noto al pubblico è dell’ordine di millequattrocento miliardi di euro (1400) per il mondo delle banche e della finanza; stimato in 600 miliardi di dollari invece il gruzzoletto sborsato dal governo americano tra il 2007/2008 per salvare il crollo del credito ipotecario dei colossi “FannieMae” e “FreddieMac”, la concomitante crisi dell’Aig (American International Group, la principale assicurazione del paese) e il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers.Ma con debiti, sacrifici e sottrazione di fondi si affossano le famiglie, la scuola, l’Università e la ricerca, la sanità e il futuro dei giovani. I governi mondiali dicono di non potere trovare neanche tra 10 e 30 miliardi di dollari all’anno (fonte Onu) per l’istruzione di bambini e bambine.
Si lasciano i poveri alla morte o alla mensa e alla sanità della carità. Non si trovano soldi per nessuno, e neanche per il risanamento dello stesso ambiente che è considerato, dalla stessa bioeconomia capitalistica, una risorsa economica utile e irrinunciabile per lo sfruttamento della sua biodiversità. Ma si rimpinguano (tralasciamo numeri e cifre abbastanza noti) le casse dello sfruttamento, del dominio capitalistico e dei ricchi sempre più ricchi socializzando le perdite (a loro imputabili) e la loro economia dei disastri.
Ma a proposito di debiti e della loro onorabilità, Damien Millet ed Eric Toussaint – esaminando la situazione del debito degli Stati in questo frangente della razzia finanziaria-liberal-capitalistica e le condizioni previste per onoralo e i vizi di consenso previsti dalle convenzioni, stante alla stessa Carta dell’Onu, ricorda che non necessariamente i debiti vanno onorati. Non c’è necessità e dovere di soddisfare l’obbligo contratto, se i prestiti non seguono le finalità condivise e stabilite dalla legislazione internazionale.
E così è, ci pare e senza ombra di dubbio, il caso della Grecia, della Spagna e dell’Italia.
Millet eToussaint (fonte ONU) ricordano:

Per essere vincolato da un contratto di prestito, uno stato deve aver dato il suo consenso liberamente. Da questo consenso nasce l’obbligo di rimborsare il debito, Tuttavia, il principio non è asso­luto: è sottoposto alla legalità di cui si è dotato il diritto interna­zionale. Così, l’articolo 103 della Carta dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) proclama: “in caso di conflitto tra gli obblighi dei membri delle Nazioni unite in virtù della presente Carta e i loro obblighi in virtù di ogni altro accordo internazionale, i pri­mi prevarranno”. Tra questi si trova, all’articolo 55 della Carta: “L'aumento dei livelli di vita, il pieno impiego e delle condizioni di progresso e di sviluppo nell’ordine economico e sociale”. I “piani di aiuto” concessi dalla Commissione eu­ropea, dalla Bce e dall’Fmi ai paesi in difficoltà (per permettere loro di rimborsare i creditori) rispondono a queste esigenze? Nel 2009, la Lettonia si è vista imporre una riduzione delle spese pubbliche equivalenti al 15% del Pil, una diminuzione del salario dei funzionari del 20%, una riduzione dell'importo delle pensioni (peraltro giudicata incostituzionale alcuni mesi più tardi) del 10%, e la chiusura di scuo­le e ospedali. Ma, fin dal 1980, la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni unite stabili­sce: “Uno stato non potrà, ad esempio, chiudere le scuole, le università e i tribunali, abolire la polizia e trascurare i servizi pubblici al punto da esporre la popolazione al disordine e all’anarchia, al solo fine di disporre dei fondi necessari a far fronte ai suoi obblighi nei confronti dei creditori esteri (4) ” [4].

Perché, allora, gli italiani (il cui debito, e forse per difetto, è del 120% del Pil) – come il resto delle altre realtà massacrate (“il debi­to estero totale dei paesi dell'America latina toccava, a fine 2009, il 23% del prodotto interno lordo (Pil), si collocava al 155% in Germania, 187% in Spagna, 191% in Grecia, 205% in Francia, 245% in Portogallo e 1.137% in Irlanda. Una cosa mai vista”[5]) – sono chiamati a onorare il debito, se “L'aumento dei livelli di vita, il pieno impiego e delle condizioni di progresso e di sviluppo nell’ordine economico e sociale” anziché migliorati sono stati peggiorati e regrediti?
Ora, a fronte di quanto, ci sembra, che ogni proposta di risanamento ed equilibrio, persino quella di riaffidare alla forma-Stato alcune delle sue classiche prerogative, e tra queste il potere di nazionalizzare, di pianificare e di riattivare qualche forma aggiornata di walfare, non può che essere considerata quale impegno solo di transizione, ma di una transizione che vada diretta al taglio netto del/col modello capitalistico. Usiamo le forbici di Atropo!
Arrivata la fine ed esaurito il tempo assegnato (l’utopia del liberismo economico-finanziario e del libero mercato mondiale è stato solo un fraudolento colpo di mano!) si deve tagliare il filo della vita dipanato da Lachete. La spina va stacca! Non si può e non si deve permettere la crudeltà dell’accanimento terapeutico.
A una guerra di classe che, in tempi di bioeconomia e biopotere, non è più quella del sottoinsieme della classe operaia, ma quella fatta dall’insieme di tutti gli sfruttati della bioeconomia capitalistica che ha sussunto l’intera vita nel tempo di lavoro “valorizzato”, e senza chinare il capo o essere in subordine, non si può che rispondere che con la “riattivazione” della lotta di classe a tutto tondo, in tsta i “beni comuni”, il “comune” e la riappropriazione comunista. Perché oggetto della guerra di classe, intrapresa dal capitalismo del “debito sovrano”, sono i lavoratori “che subiscono un attacco senza precedenti al salario e al walfare, con possibili ripercussioni sui livelli di democrazia” [6].
Una riappropriazione che deve procedere con “l’autogestione delle imprese produttive, la partecipazione di tutti alla direzione delle attività di produzione, perché (corsivo nostro) oggi l’economia si è svincolata dall’impostazione globale, quasi umanistica che Marx le aveva dato, ed avviluppata in un tecnicismo che esclude [...]sempre più lontana dalla politica quale siamo abituati a vederla [...] Dal canto loro i ‘politici’ [...] appaiono subordinati all’economia, al mercato e alle banche centrali, sembrano perdere la loro autonomia di decisione” [7].
Non basta “demercificare i beni comuni” [8]; e il “comune” del comunismo (riappropriazione dei propri mezzi di lavoro, decisione sociale dei fini d’uso della produzione economica, etc) deve percorrere strade non conosciute. Il comunismo, di cui oggi si ricomincia a parlare, infatti, non ha niente a che vedere con la riproposizione delle sue forme passate. Il “socialismo reale” del partito-Stato (sedicente comunista) di ieri e dei sistemi satelliti non è stato che un passaggio e una verifica storica finale fallimentare, nonostante gli apporti positivi che ha avuto nell’insieme per l’emancipazione dei popoli e dell’umanità.
Non bisogna dimenticare che ogni forma che realizza un paradigma politico non sfugge alla storia temporale e alle determinazioni delle contingenze storiche che ne esauriscono il compito o mettono fine alle azioni intraprese con altri intenti ( anche buoni) all’origine.
Così è oggi, di forma in forma, per il capitalismo di stato o del libero mercato: ha fatto, e non senza modernizzazioni, resistenze politiche e armate, la storia del passato. Il fatto che domina ancora trascinandosi tracimando con guerre e stermini, mentre dall’altro le rivoluzioni dal basso e in tutt’altre modalità che del passato, indica che: perde consenso condiviso e usa la forza e la violenza pura come non mai. Un animale che, ferito a morte, reagisce di conseguenza.
Ma non gli appartiene più né il presente, né il futuro. Basta uno sguardo in giro alla “ribellione” politico-sociale (ribellarsi è giusto!) dei movimenti di opposizione generali e germinanti, quasi per contagio istantaneo, in ogni realtà. In simbiosi e ibridazione sono planetari. La difesa e la proposizione del “comune” che li caratterizza, ci sembra, sia il vento di una nuova forma del progetto comunista, il comunismo della molteplicità e delle pluralità singolari. Un’idea e una prassi delle lotte contemporanee che, per condizioni e complessità, non può più riattivare certamente l’organizzazione del Novecento, e che perciò è obbligata dalla contingenza a sperimentare modalità inesistenti e per ipotesi sperimentali; sottoposte, direbbe Alain Badiou, a procedure di verità: “chiamo procedura di verità o ‘verità’ un’organizzazione continua delle conseguenze di un evento in una situazione (in un mondo)” [9].
Del resto, Marx, e non bisogna dimenticarlo, alle richieste di Vera Zasulic circa il senso comunista della “comune rurale” nella Russia del 1881, rispondeva che la “legge tendenziale esposta nel Capitale non si applica indipendentemente dalle circostanze storiche: Bisogna discendere dalla teoria pura alla realtà russa [...] coloro che credono alla necessità storica della dissoluzione della proprietà comune in Russia non possono in nessun caso provare questa necessità attraverso la mia esposizione della marcia fatale delle cose in Europa occidentale”[10].


[1] Andrea Fumagalli, Biopotere finanziario e diritto d’insolvenza, in “Alfabeta2”, Novembre 2011, n. 14.
[2] Danilo Zolo, L’inganno delle guerre “umanitarie”, in “Alfabeta2”,Novembre 2011, n. 14.
[3] Damien Millet ed Eric Toussaint, Aria di rifondazione in Europa. Bisogna pagare il debito?, in “Le monde diplomatique/il manifesto”, Luglio 2011, n. 7.
[4] Ivi.
[5] Ibidem.
[6] Domenico Moro, Un passaggio di fase storica, in Le cause del debito europeo e il che fare, http://lagrublog.blogspot.com/2011/11/le-cause-del-debito-europeo-e-il-che.html.
[7] Luigi-Alberto Sanchi, Comunisti; Economia e politica, in Feudo Italia, Sigismundus Editrice, Ascoli Piceno 2011.
[8] Alberto Burgio, Uno sguardo adulto sul mondo, in “Alfabeta2”, Luglio-Agosto 2011, n. 11.
[9] Alain Badiou, L’ipotesi comunista, Cronopio, Napoli 2011.
[10] Etienne Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994 .

4 commenti:

  1. Un intervento molto completo e preciso. Grazie del lavoro.

    RispondiElimina
  2. Demercificare i beni comuni, appropriarsi dei mezzi di produzione, non far pagare la crisi del debito ai lavoratori e ai pensionati. Su questo siamo d'accordo. Nel "comune" da difendere e da riconquistare includerei l'Europa, non tanto il fantasma, quanto la realtà dell'abbattimento dei confini. L'avevate mai attraversato il confine tra la Germania Ovest e la Cecoslovacchia? Avete in mente il filo spinato, le garritte, la terra di nessuno? Vi ricordate la I e la II guerra mondiale in Europa? Ecco, se sappiamo questo, non possiamo affogare, insieme, alla speculazione e alla guerra monetaria, il fragile euro. Io non avrei motivo di brindare.

    giovanni commare

    RispondiElimina
  3. Non condividere l'appassionata eppur chirurgica analisi del momento attuale, fatta da Nino Contiliano, è del tutto impossibile, almeno per chi, non si limiti a brucare l'erba del suo praticello,finché c'è.
    Quello che, comunque, mi gela il sangue, è l'atteggiamento degli italiani, che sembrano non aver compreso appieno come stiamo precipitando nel baratro, che hanno tollerato che ciò capitasse, quando era sotto gli occhi di tutti, che un insieme di individui ci stesse conducendo al macello, convinti di stare andando in paradiso. Non so come sia potuto accadere, però è accaduto, nessuno si è mosso e siamo ancora qui, ad assistere alla nostra rovina, senza muovere un dito.
    Ho visto ieri sera Ballarò e mi e venuta voglia di urlare tutta la nausea che provavo, a certi "discorsi" a certi teoremi, alla vista di certe facce.
    Io non ho la preparazione politica e culturale di Nino Contiliano, però sono capace di pensare e penso che il nostro destino e quello dei nostri figli e nipoti,sta nelle nostre mani, solo che prendiamo coscienza dei fatti veri e ritroviamo la forza di provare indignazione.
    Ringrazio Nino perché chi aiuta ad aprire gli occhi, è sempre benvenuto.
    Flora Restivo

    RispondiElimina