lunedì 19 gennaio 2009

PHILIPPE DUBOIS - L'ATTO FOTOGRAFICO

Il blog come luogo estemporaneo. Voce espressa nel vuoto dell’incontro casuale.
Premessa breve e forse superflua ma legata alle modalità con le quali utilizzerò questo spazio. Senza scadenze mi riprometto, infatti, di proporre testi letti, suggeriti e subiti intorno alle tematiche dell’arte, evidenziandone i nuclei principali, evitando la recensione o l’articolo d’approfondimento. Il blog come vetrina per libri utili alla riflessione su problematiche e aspetti della comunicazione artistica.
Ad aprire questo spazio è “L’atto fotografico”, di Philippe Dubois, un testo che partendo dalle basi teoriche gettate da Roland Barthes in “La camera chiara”, amplia il discorso sul mezzo fotografico anche alla pittura, non per ricercare la superiorità di una sull’altra, questione sterile e inattuale, quanto impostando un ragionamento dialettico capace di individuare le specificità proprie di questi due mezzi artistici.
Ricollegandosi al concetto barthesiano di fotografia come memento mori, Dubois paragona l’atto fotografico allo sguardo pietrificante di Medusa: "Si abbandona il tempo cronico, reale, evolutivo, il tempo che passa come un fiume, il nostro tempo di esseri umani inscritti nella durata, per entrare in una nuova temporalità, separata e simbolica, quella della foto: temporalità che, anch’essa, dura ed è tanto infinita (in principio) quanto la prima, ma infinita nell’immobilità totale, fissata nell’interminabile durata delle statue. […] La foto letteralmente ghiaccia di terrore. Vi si ritrova, ancora una volta, la famosa figura di Medusa" [1]. Una paralisi del soggetto che si pone allo sguardo dell’osservatore come immagine fossilizzata, palesandosi costantemente nella propria assenza.
Lo spazio della fotografia appare colmo e immobile, rispetto allo spazio aperto e mutevole del dipinto, definibile soltanto a lavoro ultimato; la foto è sempre traccia dell’oggetto che raffigura, ne porta addosso i segni, le impressioni stratificate sulla pellicola, ed è perciò delimitata a quella porzione di mondo che l’obiettivo riesce ad inquadrare, è un occhio fisso, per quanto veloce possa essere: "Il principio della “genesi automatica” che fonde lo “statuto” della fotografia come impronta, secondo il quale il “reale” lascia un’impronta sulla piastra sensibile, questo principio deve essere chiaramente delimitato e posto al suo giusto livello, vale a dire come un semplice momento…" [2].
La pittura, al contrario, è retta da un principio di "variazione "discontinua"" [3], grazie alla sua caratteristica di auto-ridefinirsi durante la propria genesi, nel suo farsi, spostandosi dal dato oggettivo della foto, a quello delle possibilità. Se la foto sospende nell’immobilità il tempo reale, la pittura "capta il tempo a ciascun colpo di pennello e il quadro, teoricamente, non è mai finito, terminato, immobilizzato in uno stato determinato. Interminabile lavoro della pittura. Immobilismo istantaneo e tagliente della fotografia" [4].
Portando un ragionamento tale dalla teoria alla pratica artistica, si compie inevitabilmente una scelta forte, cosciente delle specificità del mezzo fotografico rispetto a quelle della pittura; Dubois troverà così negli scatti di Diane Arbus, nella loro immobilità artefatta, ricercata e voluta, l’anima stessa della fotografia: "è attraverso l’artefatto, assunto come tale, della posa che i soggetti esplicitano la loro realtà intrinseca, "più vera della natura"" [5]. Una scelta che si contrappone alla poetica dello scatto rubato tipica di Henri Cartier-Bresson: "Contro l’immagine rubata, Arbus contrappone l’immagine preparata, costruita. Contro la spontaneità, la posa. Contro il caso, la volontà e la scelta. E’ attraverso l’immagine plastica, che essi vogliono dare di essi stessi e che l’artista li porta a produrre, che si rivela la “verità”, l’”autenticità” dei personaggi d’Arbus. Ecco lo spostamento: l’interiorizzazione del realismo mediante la trascendenza del codice stesso" [6]. Nella fissità esasperata, il mezzo fotografico oltre ad esporre un soggetto, espone se stesso, la propria intima natura, e l’osservatore non potrà far altro che pietrificarsi a sua volta, davanti a tale evidenza.

Daniele De Angelis


Philippe Dubois, L’atto fotografico, ed. it. Quattroventi, Urbino 1996

[1] pp.156-157
[2] p.87
[3] p.102
[4] p.156
[5] p.46
[6] ibid.

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