martedì 26 ottobre 2010

SULLA BOCCA DI TUTTI, DI MARIA GRAZIA CALANDRONE

Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010), di Maria Grazia Calandrone


“Perché nulla è il bello se non l’emergenza del tremendo.”.
Perché recito questi versi di Rilke, dalla Prima delle Elegie duinesi, in riferimento a questo nuovo capitolo dell’Opera poetica di Maria Grazia Calandrone? Cerco di spiegarlo.

Sulla bocca di tutti
è un libro boschivo, nel senso che davvero (e vi invito a leggerlo, per averne una prova) non si tratta solamente di un libro ma di un bosco.
Se la poesia per noi (così come in Mandel’stam) è parola-campanello di Pavlov che risveglia la vita e i sensi (e con essi il pensiero, la memoria e l’azione cerebrale), ogni singola sillaba intagliata nelle pagine lignee di questa Opera contiene e trasporta gli odori della terra bagnata e tiene la consistenza ambigua della riva, cioè di quel limbo di naturale ambiguità dove gli elementi della vita e della non-vita si sciolgono, dove riverbera il suono delle felci sfogliate e del legno franto al passaggio umano: «la prima volta che toccavo cosa non umana: la riva / era la prima cosa naturale ad essere / fuori di me nell’aria / sentimentale / per lo sgomento di aver concepito / il materiale di cui sono fatte le cose / non umane». (Scrive Agamben in un saggio dedicato all’amico Giorgio Caproni di come la memoria umana sia assolutamente non idonea al trattenimento musicale, incapace di ripercorrere il minuzioso concerto dei segnali sonori di un bosco, legati l’un l’altro da un’incessante struttura che è possibile comprendere ed avere solo nell’esperienza vivente del passaggio. E la poesia, o meglio dire: il pensiero fonico, è quanto di più somigliante a tale esperienza.).
Dove ci conduce nel libro di Maria Grazia Calandrone questo sentiero, questa selva sonora, questo “bello”? Ad un evento tragico, la morte. Ci conduce cioè all’emergenza del “tremendo” di cui parlava l’elegia di Rilke.
In questo senso l’Opera è un vero e proprio ciclo, il cui primo verso ci dice che «La terra era bellissima» e l’ultimo (una sorta di preludio al silenzio dell’assimilazione) chiude con queste parole: «Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa fine».
Si dovrebbe meglio definire questa interpretazione dicotomica tra la "bellezza" e la "fine", perché Sulla bocca di tutti è un’opera liquida, in cui i due poli dell’interpretazione umana vengono sciolti in un unico corso fluviale di grazia e cenere, lutto e battesimo, sangue e neve: «lo sposalizio segreto» (sono parole del libro) della «luce nelle ossa».
Di cosa stiamo parlando, o meglio: di cosa ci sta parlando il libro, è presto detto: l’evento, l’irreversibile momento di questo viaggio nell’universo della memoria fisica (e cioè di quella memoria che si manifesta da sé nelle eco dei sensi, in una continua apertura di passaggi segreti e digressioni), è il suicido materno, che da un’origine misterica dell’infanzia torna ed emerge come un’emergenza da affrontare, un’esigenza di portare luce e chiarezza sopra un nodo coagulato di senso rimasto coperto, omesso; come una chiamata a scendere, «col passo e col pensiero», in un abisso fondativo dell’esistenza individuale.
La parola poetica di Sulla bocca di tutti ha la consistenza di una bacca di sangue, come il sanguinaccio dei piccoli paesi rurali, un rubino che si aggruma sul fuoco coagulando il sangue del vitello ucciso, e che poi si scioglie e rivela nel palmo della mano, al calore della condivisione.
Anche il mistero di questo libro si rivela a partire da ogni sua singola parola-gemma, coagulata di senso e suono, nella sua crudeltà di storia privata e reale: la scomparsa materna nelle acque del Tevere.
C’è un coraggio duro, di confessione e adiacenza, di fedeltà al dolore vissuto e vivente, che in un ambiente letterario (e in un'antropologia nazionale) sempre più prede della vergogna e della ossessione patologica e schifiltosa nei confronti della sincerità non educata ai canoni dell’ipocrisia (o del travestitismo) può risultare (addirittura) sconvolgente, esplosivo, vulcanico. Si tratta invece di un bagno di delicatezza, di un raffinato naufragio, elegante come l'ordito ritmico, la trama prosodica, lo stile della costruzione del verso e delle dilatazioni apparentemente prosastiche dei proemi.
L'io poetico, che si dipana in maniera omogenea e in una lingua lirica cristallina e tagliente (la lingua della poesia, da Petrarca ad Amelia Rosselli), subisce (come ne Lo specchio di Tarkovskij) una mitosi, cioè quel processo di filiazione, di separazione cellulare, sdoppiandosi dalla prima persona della scomparsa, di una madre «pazza d’amore perdutamente incatenata», al soggetto ricordante e figliare, l'autrice; da un luogo cioè segreto e mitico della memoria individuale al «guscio esterno della terra».
Ho spesso avuto a mente un’immagine di Umberto Saba, un verso dalla poesia “Il torrente”, in cui l’acqua del fiume «dove ristagna scopre cose immonde».
Le cose immonde di Saba sono le verità emerse, spinte dal di dentro dell'inconscio al di fuori (sue definizioni) della scrittura, come un Cuore messo a nudo del nostro Baudelaire italiano.
Maria Grazia Calandrone scrive: “Ecco il mio cuore / più mio.”. E scrive ancora: “Non cercarmi altrove: sono queste parole.”.

Io credo che ci troviamo di fronte ad un’opera molto significativa ed importante, che mi ha fatto pensare anche alla centralità di un’altra opera-confessione e rosario come il Requiem di Anna Achmatova.
In un’epoca di dispersione e rimozione, che ha abolito capacità di raccoglimento e di scavo interiore per far posto ad una solitudine di massa istericamente taciuta e falsata, una ricerca autenticamente solitaria (la «solitudine perfetta», la definisce l'autrice) di assimilazione del sommerso e consegna della verità ritrovata, assume forse una posizione talmente morale (davvero una fedeltà, un “Compito” per tornare a Rilke) da risultare, ben oltre la dimensione della confessione, una presa di posizione storica, un approccio nei confronti del vivere e dello scrivere, del pensarsi e del dirsi, che ci riguarda direttamente e storicamente.
Bisogna guardarsi a fondo nelle acque del fiume.

Davide Nota

1 commento:

  1. "perché il bello non è che l'inizio del tremendo", si trova in un'altra traduzione di Rilke, che forse trovo più incisiva.
    Algido, bianco e insieme anche terreno come un suk.
    Prenderò questo libro della Calandrone, mi attrae molto.

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