I fiori della città ferita
di Davide Nota
Cos’è «il latrato del lupo che entra nelle scarpe»?
È la preistoria postmoderna che si consuma nei falò delle metropoli, nel battito cardiaco che scandisce il ritmo dei non luoghi di un’Italia avvelenata e mutante, su una bava cementizia che unisce costa adriatica e pedemonte, interrompendo il classico dell’antichità rurale, in una piana successione di capanni industriali, palazzine, ipermercati e bar. Il “soggetto implicito” che abita questo mondo è un ragazzino di vent’anni, nato e cresciuto nel cuore fondo di una Non-storia che canta attraversandola con versi espressionistici e allucinati, in una prima persona franta ed enigmatica, su moduli ricavati da una tradizione orfica e suburbana che traduce Dino Campana in Aldo Nove passando per le esperienze di Nanni Balestrini e Milo De Angelis, ma anche attraverso il cinema di David Lynch e le lande psico-acide del Post-moderno, tra transe iperreale ed antiestro ermetico.
La logica che muove questo racconto in versi, questa anti-epica immersiva e pop della provincia italiana del Duemila, è la scrittura automatica generata da una accelerazione connettiva di parole e di immagini scritte e parlate, che salgono e battono come bassi industrial da una cassa di risonanza interna, una vibrazione interiore alla terra e alla carne storiche.
È l’accelerazione di chi si trova a decifrare i quadri sconnessi dell’esistenza attraverso un filtro sopra cui scorrono i geroglifici audiovisivi di un tardo consumismo disidratato ma ancora assoluto, annodato come edera attorno agli oggetti della realtà e del quotidiano. Ed è la velocità di chi può farlo, soprattutto, solo per mezzo di una connessione alogica di immagini catturate con la coda dell’occhio, dalle corse in motorino alle estasi tecno-barocche della discoteca.
Ciò che resta di tali impressioni sensoriali è la traccia di un passaggio sedimentatosi come cenere sopra la pagina bianca o calcare incrostato attorno alle grate del depuratore storico, quando l’età fluviale sfocia ad altro mare. La poesia di Emiliano Michelini si va costruendo per strati sovrapposti di materiali incongrui, scorie contemporanee auto-filmatesi in dialoghi provvisori e disturbate immagini da videotape amatoriale anni Novanta, corrose dai pixel per mancanza di luce o sfocate dall’impossibilità di una messa a fuoco rapida.
Il sipario si alza su una data simbolica. È il 1998, tre lustri fa. L’autore ha poco più di vent’anni, chi ora scrive ne ha diciassette e sta guardando il film di Schnabel su Jean-Michel Basquiat in un garage di periferia di una provincia marchigiana, assieme ad alcuni amici che inizieranno a dipingere o a leggere poesia. Ciò che accadrà solamente tre anni dopo, nell’implosione delle Twin Towers di New York e dell’immaginario globale, è lontano quanto un Nuovo evo. La ricostruzione mnemonica e alienata di questo io storico in atto, adolescente nella bolla speculativa di una Storia che si immagina finita, è il soggetto poetante che canta in presente indicativo le azioni anti-epiche di un giovane abitante di una delle tante ininfluenti propaggini del sistema globale.
Ma in un contesto che potremmo definire post-Pop, e dove spesso l’ironia ha la funzione di sfigurare o di alienare il pathos tragico, fioriscono come pratoline urbane le forme liriche di un’esperienza umana. Sono piccole creature senza più nome, bianche e viola, sopra di esse passa un motorino; ma schiacciate si rialzano. Il prato dei giardini pubblici come il grande oceano tutto assorbe e perdona. Si nutre di lacrime e di pioggia, riposa all’ombra dei palazzoni a schiera. Qui passano le storie, si stratificano “le nostre impronte su questi giorni”, tracce slavate in uniposca o happy color di una generazione senza volto le cui voci si sono intrecciate in un selvatico coro di fuochi notturni ed albe raggelanti, da obitorio e claxon.
È “l’urlo che ha denti per vedere”, vedere “l’orda dei teen-ager [che] muove i primi passi”, “attaccati qui con questi chiodi” o “con le dita / sul pulsante degli scooter”. È Alice nel paese delle meraviglie traumatizzate, “La ragazza [che] continua il suo calvario, non ritrova / l’altra caramella, quella rossa, esplosa come un fungo, / come un’auto disastrata, cappottata, senza un io”.
Buona lettura.
[Prefazione a La circolazione del sangue di Emiliano Michelini, Sigismundus Editrice, 2013]
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