Descrivere il ritrovamento di oggetti perduti o dimenticati, è indagare la latenza dello smarrimento. Oggetti smarriti (PDC Editori), opera prima dello scrittore Andrea Tosti, pone il lettore nel mezzo di tale sospensione. Le cose giungono nel chiuso di un “fortino/magazzino”, dove la luce è puro neon, e dove burocrati incasellatori lavorano giornalmente per catalogare il tutto. Un “mondo” che potrebbe benissimo rappresentare un “paradiso” aristotelico, dove ogni oggetto trova una sua precisa locazione e tassonomia, affinché la struttura amministrativa non vada in corto circuito. Un luogo esclusivamente maschile, quindi sterile, nel quale gli impiegati non soltanto lavorano ma vivono. In sostanza un bunker, metafisico se si vuole, ma pur sempre un isolato rifugio, dove oggetti si accatastano ordinatamente entrando in una dimensione “fluttuante”. Sembra quasi di assistere all’infinita preparazione di un’arca biblica o, per il senso di deriva e perdita, un’arca russa sokuroviana. L’uomo salva ciò che per entropia finirebbe nel nulla di un tempo tanto presente da sembrare assente, summa di se stesso, così che gli oggetti smarriti non sono semplicemente presenti, contemporanei, ma di ogni epoca e cultura, quasi che l’esterno sia effettivamente il mare immaginato da Sokurov attorno all’Ermitage.
La cosa perduta è, nelle mani di Andrea Tosti, il pretesto per descrivere l’esistenza in una terra di nessuno, un non-luogo in attesa di un soffio vitalizzante. Gli oggetti giungono e sono riconosciuti ma tutto si ferma qui; il resto sono supposizioni, fantasticherie su vite assenti, sul passato di materiali inanimati nelle esistenze degli altri, quelli che sono fuori, sempre che ci siano. Sì perché la scrittura di Tosti è sottile e autarchica, auto generante e auto giustificante, capace cioè di creare un “mondo” claustrofobico eppure completo, tanto che nel proseguire pagina dopo pagina, ci si dimentica di trovarsi in una confinata riserva. Il romanzo si apre spesso a scene di una quotidianità singolare, nelle quali gli impiegati si ritrovano la sera assieme, in uno dei loro appartamenti, per bere e chiacchierare, discutere e congetturare, ossia vivendo una convivialità integra nella propria essenza, anche in un luogo come lo sterminato magazzino. Andrea Tosti ci mostra l’importanza della parola, che dalle sponde aride della catalogazione, si muove verso le terre ricche dello scambio tra uomini. La parola, in questo romanzo, evidenzia il proprio valore per sottrazione di azioni, circoscritte alla ripetitività del lavoro di incasellatore, affermando, in tal modo che, laicamente, l’uomo è la parola ed essa risiede in lui.
Fin qui i luoghi, gli uomini, il mestiere e le strutture ma il romanzo, essendo un romanzo, innesca di per sé una narrazione e quindi una storia. E le storie spesso nascono nella mente dello scrittore da domande, tipo: “e se tra gli oggetti smarriti arrivasse un giorno anche un neonato?”. A questo punto il bambino non può far altro che apparire nelle pagine del libro. Avviene, infatti, che la monotona quanto tranquilla esistenza dei burocrati, venga stravolta dall’arrivo di un poppante, subito affidato/incasellato ad uno degli impiegati, che da quel momento, come per immacolata concezione, diventerà padre. Un padre atipico, in un mondo atipico, con un figlio atipico; un figlio dimenticato, smarrito (abbandonato?) nel mondo e dal mondo, relegato ora nel magazzino, posto non certo adatto all’infanzia ma sicuramente ben disponibile alla crescita intellettuale, data la grande quantità di cose a disposizione. Ed è in questo rapporto tra padre educatore e figlio educando, che gli oggetti, i concetti, le opere, incominciano a riprendere vita e senso, ridiventando finalmente, dopo anni, parte della vita dell’uomo.
Andrea Tosti con una scrittura sempre attenta, memore di quella scientifica del ‘700 come di quella allucinata di autori novecenteschi quali Kafka o Vonnegut, oppure quella barocca di Borges, dove l’eccesso della mente e della scienza apre le porte al paradosso e all’impossibile, è abile a innescare i meccanismi del dubbio e della suspense, in modo naturale, ancora una volta con una domanda: “ma fuori cosa ci sarà?”. Cresciuto, infatti, il ragazzo ha appreso molto e si rende conto che la sua formazione è avvenuta su materiali provenienti da un altrove che ora lo tenta. Il sapere veicolato dalla parola, scritta e orale, svela anche il proprio lato meno rassicurante, quello dell’ignoto da sfidare; il ragazzo è ora un novello Odisseo o un Colombo, con una visone altra della vita e del mondo, incomprensibile per tutti ma indomabile.
L’oggetto/ragazzo lentamente appare come il più consapevole delle strutture interne del sistema, delle regole e dei regolamenti alla base del magazzino, ciò lo spinge a travalicare lo stato di latenza di essere smarrito e quindi inclassificabile, non essendo una cosa, un dipendente o un dirigente. Attraverso la conoscenza, lo scambio di sapere con il padre e i suoi compagni, il ragazzo non semplicemente cresce e si fa adulto ma si autodetermina come uomo, anche se questo significa rinnegare il mondo, per assumere il proprio ruolo in esso.
Oggetti smarriti di Andrea Tosti, è quindi un romanzo complesso, che si interroga sull’essere delle cose, delle persone, dei rapporti e dei nomi, con la consapevolezza che il “tutto” può esistere solo al cospetto dell’”altro”, assente o presente, e che i ruoli sono soltanto definizioni soggette a mutazioni.
Daniele De Angelis
Andrea Tosti, Oggetti smarriti, PDC Editori, 2009 - www.pdceditori.it
La cosa perduta è, nelle mani di Andrea Tosti, il pretesto per descrivere l’esistenza in una terra di nessuno, un non-luogo in attesa di un soffio vitalizzante. Gli oggetti giungono e sono riconosciuti ma tutto si ferma qui; il resto sono supposizioni, fantasticherie su vite assenti, sul passato di materiali inanimati nelle esistenze degli altri, quelli che sono fuori, sempre che ci siano. Sì perché la scrittura di Tosti è sottile e autarchica, auto generante e auto giustificante, capace cioè di creare un “mondo” claustrofobico eppure completo, tanto che nel proseguire pagina dopo pagina, ci si dimentica di trovarsi in una confinata riserva. Il romanzo si apre spesso a scene di una quotidianità singolare, nelle quali gli impiegati si ritrovano la sera assieme, in uno dei loro appartamenti, per bere e chiacchierare, discutere e congetturare, ossia vivendo una convivialità integra nella propria essenza, anche in un luogo come lo sterminato magazzino. Andrea Tosti ci mostra l’importanza della parola, che dalle sponde aride della catalogazione, si muove verso le terre ricche dello scambio tra uomini. La parola, in questo romanzo, evidenzia il proprio valore per sottrazione di azioni, circoscritte alla ripetitività del lavoro di incasellatore, affermando, in tal modo che, laicamente, l’uomo è la parola ed essa risiede in lui.
Fin qui i luoghi, gli uomini, il mestiere e le strutture ma il romanzo, essendo un romanzo, innesca di per sé una narrazione e quindi una storia. E le storie spesso nascono nella mente dello scrittore da domande, tipo: “e se tra gli oggetti smarriti arrivasse un giorno anche un neonato?”. A questo punto il bambino non può far altro che apparire nelle pagine del libro. Avviene, infatti, che la monotona quanto tranquilla esistenza dei burocrati, venga stravolta dall’arrivo di un poppante, subito affidato/incasellato ad uno degli impiegati, che da quel momento, come per immacolata concezione, diventerà padre. Un padre atipico, in un mondo atipico, con un figlio atipico; un figlio dimenticato, smarrito (abbandonato?) nel mondo e dal mondo, relegato ora nel magazzino, posto non certo adatto all’infanzia ma sicuramente ben disponibile alla crescita intellettuale, data la grande quantità di cose a disposizione. Ed è in questo rapporto tra padre educatore e figlio educando, che gli oggetti, i concetti, le opere, incominciano a riprendere vita e senso, ridiventando finalmente, dopo anni, parte della vita dell’uomo.
Andrea Tosti con una scrittura sempre attenta, memore di quella scientifica del ‘700 come di quella allucinata di autori novecenteschi quali Kafka o Vonnegut, oppure quella barocca di Borges, dove l’eccesso della mente e della scienza apre le porte al paradosso e all’impossibile, è abile a innescare i meccanismi del dubbio e della suspense, in modo naturale, ancora una volta con una domanda: “ma fuori cosa ci sarà?”. Cresciuto, infatti, il ragazzo ha appreso molto e si rende conto che la sua formazione è avvenuta su materiali provenienti da un altrove che ora lo tenta. Il sapere veicolato dalla parola, scritta e orale, svela anche il proprio lato meno rassicurante, quello dell’ignoto da sfidare; il ragazzo è ora un novello Odisseo o un Colombo, con una visone altra della vita e del mondo, incomprensibile per tutti ma indomabile.
L’oggetto/ragazzo lentamente appare come il più consapevole delle strutture interne del sistema, delle regole e dei regolamenti alla base del magazzino, ciò lo spinge a travalicare lo stato di latenza di essere smarrito e quindi inclassificabile, non essendo una cosa, un dipendente o un dirigente. Attraverso la conoscenza, lo scambio di sapere con il padre e i suoi compagni, il ragazzo non semplicemente cresce e si fa adulto ma si autodetermina come uomo, anche se questo significa rinnegare il mondo, per assumere il proprio ruolo in esso.
Oggetti smarriti di Andrea Tosti, è quindi un romanzo complesso, che si interroga sull’essere delle cose, delle persone, dei rapporti e dei nomi, con la consapevolezza che il “tutto” può esistere solo al cospetto dell’”altro”, assente o presente, e che i ruoli sono soltanto definizioni soggette a mutazioni.
Daniele De Angelis
Andrea Tosti, Oggetti smarriti, PDC Editori, 2009 - www.pdceditori.it
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