Non abbandoniamo l’esercizio del dubbio
In questi ultimi giorni, a seguito della pubblicazione della raccolta poetica “Calpestare l’oblio”, abbiamo a mio parere assistito all’ennesima rappresentazione di una lotta di potere. L’Unità, pur con il sicuro merito di aver pubblicizzato e sostenuto l’iniziativa, ha potuto accreditare tra le proprie fila una nuova voce a suo modo autorevole (mi chiedo tuttavia: un foglio di area pubblicherebbe oggi una raccolta di interventi contro, per esempio, il colonialismo “dolce” di Obama?). Dal loro canto, i quotidiani di centrodestra si sono affrettati a gridare a un’ulteriore persecuzione nei confronti del presidente del consiglio, questa volta da parte di un gruppo di poeti, vergognosamente bollati come anacronistiche macchiette. Mi chiedo e vi chiedo: pur non azzardandomi ad assimilare – per tenore del discorso e profondità del pensiero – i due campi, cosa rimane sotto questo polverone giornalistico (dunque strumentale)? È per davvero un’antologia “scomoda” quella che genera, nell’apparato giornalistico, le solite reazioni, le trite e automatiche prese di posizione?
La novità è semmai che a far scaturire una tale contrapposizione non sia stata la dichiarazione di questo o quel politico, ma un’e-book di poesia. È senz’altro un bene, ma non ancora una vittoria. Uscire dai binari dello scontro (e dello slang) giornalistico – utilizzato quasi sempre a scapito di un racconto obiettivo della situazione – ancora una volta non è stato possibile. Altro sarebbe (o, nella speranza, sarà) affrancarsi da qualunque vocabolario del potere. Sta dunque a noi autori chiudere il cerchio della discussione, e aprirne di nuovi, elevando ulteriormente la portata intellettuale del dibattito.
La rivolta nei confronti dell’etica di chi ci governa è infatti un elemento, fondamentale ma di per se non sufficiente, di una forma di resistenza che deve essere di più ampia portata. Per questo ho trovato importante, nel coraggioso intervento di D’Elia a
Dove risiede, oggi come sempre, la portata rivoluzionaria della poesia (non solo di quella frettolosamente definita come “civile”)? Nel fatto di non potersi piegare all’utilizzo corrente, utilitaristico, borghese, mediato del linguaggio dell’informazione e della comunicazione, ossia del potere. Essere altro, con altre parole, in altri luoghi, per altre vie. In questo stanno la forza e la vitalità (e, contemporaneamente, il punto di vulnerabilità a cui si appiglia chi la denigra) del fare poesia.
Le prossime occasioni di confronto, come ad esempio la presentazione fissata per l’8 gennaio a Roma, potranno e dovranno consentirci di muovere nuovi passi. Specialmente nell’ambito di un confronto, che Davide Nota e il gruppo de
Il mio è un augurio appassionato, rivolto al futuro e che, soprattutto, arriva dall’interno, da una persona che non si crede in alcun modo migliore degli altri. Una presa di posizione pubblica da parte di intellettuali non costituisca mai un evento episodico, né sia praticata sotto alcuna egida. Conciliare un ritorno all’influenza nel dibattito culturale e politico (nel suo senso più esteso) con il mantenimento dell’autonomia di pensiero e azione è senz’altro un’impresa non da poco, ma l’unica a cui è giusto e ragionevole ambire. E per farlo è indispensabile non abbandonare mai l’esercizio del dubbio.
Raimondo Iemma
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