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venerdì 11 novembre 2011

DUE ESPRESSIONI IN VOGA

Due espressioni in voga
[di Raimondo Iemma]

"Clamori nel mondo moribondo" (F. Battiato)

1. "Occorre rassicurare i mercati". Questo è una mantra giornalistico e politico che abbiamo sentito ripetere, con prodigiosa costanza, nel corso delle ultime settimane. "Rassicurare" in merito a cosa? All'attuazione in Italia di una vera (ed equa) strategia di sviluppo? Alla difesa del welfare mediante nuovi strumenti di tutela e coesione sociale? Al sostegno, alla ricerca e all'innovazione (che non si limita a una pur necessaria iniezione di risorse)? Certo che no. A questo dovremmo pensare noi, la nostra politica, colpevolmente incapace di elaborare programmi. Quanto ai "mercati", non si tratta di esseri antropomorfi; né sono costituiti da operatori isolati, indipendenti e cronicamente vittime dell'incertezza (a questo tipo di raffigurazione contribuisce la puntuale pubblicazione di immagini che ritraggono broker con le mani nei capelli, il volto tirato, lo sguardo impotente; i giornali dovrebbero, per maggiore corrispondenza con la realtà, mostrarne le esultanze, che immaginiamo ben più frequenti). O meglio, è proprio sull'incertezza, sulla fluttuazione delle aspettative, che si basa il funzionamento dei "mercati". I quali, più che di una costellazione di operatori, sono un concentrato di pochi e potenti investitori operanti a livello mondiale. L'attacco speculatorio ai titoli di Stato italiani è una manovra finanziaria "standard" che prevede una rapida riduzione della propria esposizione - con conseguente ribasso del valore dei titoli (e contestuale incremento dei tassi di interesse) - e il seguente acquisto, a prezzi inferiori, il che permette di incassare sonore plusvalenze (nonché, nel frattempo, un indirizzo politico favorevole). E quando Goldman Sachs rende noti i livelli di "spread" che verrebbero raggiunti a seconda della situazione istituzionale italiana, ciò sembra più una promessa / minaccia a fronte di decisioni gradite / sgradite, che un'osservazione indipendente. Applicato al debito sovrano, il gioco speculatorio ha inoltre l'effetto, per via del rialzo dei tassi di interesse (quindi per l'Italia una maggiore spesa per interessi sul debito), di sottrarre risorse reali al paese. Ed è quest'ultimo, con i suoi cittadini, a dover essere messo al sicuro dagli attacchi.

2. "In Italia servono riforme strutturali". Certamente condivisibile, ma andrebbe specificato cosa si intenda. Ad esempio, si ha l'impressione che tra le "riforme strutturali" si annoveri un'ulteriore revisione, in chiave liberista, dei meccanismi regolatori del mercato del lavoro, ossia: meno tutele. "Meno Stato", insomma, ma a vantaggio di chi? Non certo dei più deboli. Prepariamoci dunque, pare con buone probabilità, a saggiare per la prima volta gli effetti di un governo di ispirazione neoliberista, che ha già incassato deleghe in bianco da molta parte della politica italiana e la benedizione delle élite finanziarie. Un passaggio di consegne - non troppo distante, per come è avvenuto, dal "commissariamento" che sta subendo la Grecia - che segna un mutamento forse irreversibile: la colonizzazione della politica e delle istituzioni italiane - che per altro non stanno dimostrando alcuna capacità di fornire argini credibili - in nome di puri interessi di mercato.

lunedì 23 maggio 2011

IL SOGNO DI UNA RIVOLTA SENZA CANONE - RAIMONDO IEMMA SU "LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA


Il sogno di una rivolta senza canone
di Raimondo Iemma


Questo nuovo libro di Davide Nota si iscrive – pur nella sua totale autonomia – in un progetto di scrittura che dura ormai, nonostante la giovane età dell’autore, da diversi anni. Anni nei quali un’opera – con tutti i necessari cambi di passo, aggiornamenti e inclusioni – sta prendendo forma, rivelandosi nel suo valore. La rimozione, nuova testimonianza di questo percorso, segna un’ulteriore crescita.
Sin dalla prima sezione, “La muta”, emerge quello che è al tempo stesso il tema cardine di questa raccolta e la prova che essa si propone di affrontare (e che il lettore ritroverà, in altra forma, anche nei brani successivi): la necessità vitale di un’immersione sentimentale nel mondo; di squarciare, quindi, quel filtro sulla realtà che è lo sguardo umano. Non è dunque un caso se questi primi testi animano un teatro naturale, boschivo, quasi inospitale:

Non molti hanno dei nomi più quei luoghi.
L’odore dei ricordi è una parola.
S’aggruma nella selva ambigua cosa
di muschio e terra madre, neve e cenere.

Ma è appunto nell’ambiguità del rimosso – vorremmo dire nella sua schizofrenia – che si muove il discorso. Nel rifiuto di ogni rappresentazione della realtà – dei luoghi, dei corpi, delle azioni – che non sia dettata dall’esperienza; e nello scontrarsi di questa volontà con la condizione di soggettività (e dell’esser soggetti a un “non potere”) che è propria dell’uomo. L’origine stessa è ferita, fuori da ogni storia, ed è questa ferita ormai invisibile – come il germoglio sepolto dalla neve che compare in una delle poesie – a venire ricercata.
Anche quando Davide Nota affronta una riflessione più propriamente politica, come avviene non solamente ne “Il fiore del fascismo universale”, ma anche nel ciclo successivo, “Viola” – nel quale la “rete” non è soltanto intesa come trappola della virtualità, ma ancora come elemento di alienazione e paralisi – lo spirito è quello della ribellione. Tuttavia, come il lettore potrà notare, al di fuori e addirittura opposto al rituale automatico e impersonale del vocabolario della rivolta. A testimoniarlo, basti ad esempio un passaggio come il seguente

E quella notte apparvero infuocate croci.
Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.
Paesaggio verde e nero
di infrarossi e fanale.
In fila pisciavamo contro il mare.
“Starò con i miei amici
fino alla fine del mondo.”.

che istintivamente ci riporta ad altre prove dell’autore, caratterizzate dalla stessa forza disgraziata, da quel bisogno di “(…) ridere commuoversi gridare / antisociali e belli parlare / a voce alta, parlare sempre…” (dal precedente lavoro di Nota, Il non potere). Appare chiaro come questo esercizio di vitalità non possa che comportare l’abiura di qualsiasi giudizio morale. Al contrario: alla denuncia dall’esterno si sostituisce la dolorosa ma necessaria presa in carico (che non è solo del poeta, ma anche dell’uomo, del ragazzo) delle ossessioni del presente, delle manipolazioni che il potere opera sulle coscienze, finanche sui corpi. Da cui il discorso – ineludibile – sulla sessualità, presente in maniera esplicita nel capitolo “La gravità”, ma che più generalmente pervade l’intera raccolta.
È “un corpo ricusato dalla storia satura” a cercare l’apertura (e a cercarla, irregolarmente, là dove la trova). Il concetto stesso di “chiusura”, che viene riportato nelle due sezioni finali del libro, non può non legarsi a quello di “origine”.
Non può, in altre parole, non fondarsi su un’operazione di recupero:

Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.

Ma questa nuova sete non sarà una semplice ricerca di libertà a partire da una generica condizione di sottomissione (non è questo il caso; e neppure si tratta della ricerca di una montaliana “maglia rotta nella rete”); piuttosto l’abbandono di ogni artificio, che finalmente permetta un contatto con la realtà non più filtrato dal modo.
Il lettore avrà certamente l’occasione non solo di individuare nuovi spunti interpretativi, ma anche di permettere, se dovrà essere il caso, che questo libro lasci una traccia nella propria vita. Considerando, se lo vorrà, ulteriori aspetti.
Per La rimozione e, più in generale, per il lavoro di scrittura di Davide Nota, risulta difficile applicare una definizione di genere che ne identifichi il percorso entro un canale prestabilito (e, d’altra parte, non ci sarebbe ragione di farlo). La sua rivolta del ridicolo non è semplice provocazione, bensì superamento dei concetti di “buono” e “cattivo” gusto. Per usare un riferimento tangibile, Nota è fratello tanto del Rimbaud di “Sensazione” quanto di quello di “Venere Anadiomene”.
Potremmo allora considerare che questo progetto poetico ricada in ciò che Deleuze e Guattari chiamano “letteratura minore”: intesa, naturalmente, non nella scala di valore artistico, ma nell’intento di “(…) fare della propria lingua un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero”, evitando dunque di “assolvere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di Stato, lingua ufficiale”. È questo il luogo della sua rivolta. Con il sogno, che questo libro ci consegna, di superare ogni posa, sfuggendo anche alla macchina della parola.


Da Davide Nota, La rimozione (Sigismundus Editrice, 2011)

mercoledì 2 dicembre 2009

Su "Calpestare l'oblio": Raimondo Iemma

Non abbandoniamo l’esercizio del dubbio


In questi ultimi giorni, a seguito della pubblicazione della raccolta poetica “Calpestare l’oblio”, abbiamo a mio parere assistito all’ennesima rappresentazione di una lotta di potere. L’Unità, pur con il sicuro merito di aver pubblicizzato e sostenuto l’iniziativa, ha potuto accreditare tra le proprie fila una nuova voce a suo modo autorevole (mi chiedo tuttavia: un foglio di area pubblicherebbe oggi una raccolta di interventi contro, per esempio, il colonialismo “dolce” di Obama?). Dal loro canto, i quotidiani di centrodestra si sono affrettati a gridare a un’ulteriore persecuzione nei confronti del presidente del consiglio, questa volta da parte di un gruppo di poeti, vergognosamente bollati come anacronistiche macchiette. Mi chiedo e vi chiedo: pur non azzardandomi ad assimilare – per tenore del discorso e profondità del pensiero – i due campi, cosa rimane sotto questo polverone giornalistico (dunque strumentale)? È per davvero un’antologia “scomoda” quella che genera, nell’apparato giornalistico, le solite reazioni, le trite e automatiche prese di posizione?

La novità è semmai che a far scaturire una tale contrapposizione non sia stata la dichiarazione di questo o quel politico, ma un’e-book di poesia. È senz’altro un bene, ma non ancora una vittoria. Uscire dai binari dello scontro (e dello slang) giornalistico – utilizzato quasi sempre a scapito di un racconto obiettivo della situazione – ancora una volta non è stato possibile. Altro sarebbe (o, nella speranza, sarà) affrancarsi da qualunque vocabolario del potere. Sta dunque a noi autori chiudere il cerchio della discussione, e aprirne di nuovi, elevando ulteriormente la portata intellettuale del dibattito.

La rivolta nei confronti dell’etica di chi ci governa è infatti un elemento, fondamentale ma di per se non sufficiente, di una forma di resistenza che deve essere di più ampia portata. Per questo ho trovato importante, nel coraggioso intervento di D’Elia a La Zanzara, il riferimento al ruolo distruttivo dei mass media e alla necessità di considerare l’esistenza di quelli che Mandel’stam chiama amici e nemici della parola. È questo, io ritengo, il centro della questione culturale.

Dove risiede, oggi come sempre, la portata rivoluzionaria della poesia (non solo di quella frettolosamente definita come “civile”)? Nel fatto di non potersi piegare all’utilizzo corrente, utilitaristico, borghese, mediato del linguaggio dell’informazione e della comunicazione, ossia del potere. Essere altro, con altre parole, in altri luoghi, per altre vie. In questo stanno la forza e la vitalità (e, contemporaneamente, il punto di vulnerabilità a cui si appiglia chi la denigra) del fare poesia.

Le prossime occasioni di confronto, come ad esempio la presentazione fissata per l’8 gennaio a Roma, potranno e dovranno consentirci di muovere nuovi passi. Specialmente nell’ambito di un confronto, che Davide Nota e il gruppo de La Gru si stanno spendendo per mantenere vivo, in merito alla portata estetica, culturale e politica della poesia di oggi e alla rinnovata capacità di avere un peso nel dibattito pubblico. Una capacità che, a mio modo di vedere, passa sì attraverso le opere, ma anche dalla loro critica, pur se aspra e diretta.

Il mio è un augurio appassionato, rivolto al futuro e che, soprattutto, arriva dall’interno, da una persona che non si crede in alcun modo migliore degli altri. Una presa di posizione pubblica da parte di intellettuali non costituisca mai un evento episodico, né sia praticata sotto alcuna egida. Conciliare un ritorno all’influenza nel dibattito culturale e politico (nel suo senso più esteso) con il mantenimento dell’autonomia di pensiero e azione è senz’altro un’impresa non da poco, ma l’unica a cui è giusto e ragionevole ambire. E per farlo è indispensabile non abbandonare mai l’esercizio del dubbio.

Raimondo Iemma