lunedì 23 maggio 2011

IL SOGNO DI UNA RIVOLTA SENZA CANONE - RAIMONDO IEMMA SU "LA RIMOZIONE" DI DAVIDE NOTA


Il sogno di una rivolta senza canone
di Raimondo Iemma


Questo nuovo libro di Davide Nota si iscrive – pur nella sua totale autonomia – in un progetto di scrittura che dura ormai, nonostante la giovane età dell’autore, da diversi anni. Anni nei quali un’opera – con tutti i necessari cambi di passo, aggiornamenti e inclusioni – sta prendendo forma, rivelandosi nel suo valore. La rimozione, nuova testimonianza di questo percorso, segna un’ulteriore crescita.
Sin dalla prima sezione, “La muta”, emerge quello che è al tempo stesso il tema cardine di questa raccolta e la prova che essa si propone di affrontare (e che il lettore ritroverà, in altra forma, anche nei brani successivi): la necessità vitale di un’immersione sentimentale nel mondo; di squarciare, quindi, quel filtro sulla realtà che è lo sguardo umano. Non è dunque un caso se questi primi testi animano un teatro naturale, boschivo, quasi inospitale:

Non molti hanno dei nomi più quei luoghi.
L’odore dei ricordi è una parola.
S’aggruma nella selva ambigua cosa
di muschio e terra madre, neve e cenere.

Ma è appunto nell’ambiguità del rimosso – vorremmo dire nella sua schizofrenia – che si muove il discorso. Nel rifiuto di ogni rappresentazione della realtà – dei luoghi, dei corpi, delle azioni – che non sia dettata dall’esperienza; e nello scontrarsi di questa volontà con la condizione di soggettività (e dell’esser soggetti a un “non potere”) che è propria dell’uomo. L’origine stessa è ferita, fuori da ogni storia, ed è questa ferita ormai invisibile – come il germoglio sepolto dalla neve che compare in una delle poesie – a venire ricercata.
Anche quando Davide Nota affronta una riflessione più propriamente politica, come avviene non solamente ne “Il fiore del fascismo universale”, ma anche nel ciclo successivo, “Viola” – nel quale la “rete” non è soltanto intesa come trappola della virtualità, ma ancora come elemento di alienazione e paralisi – lo spirito è quello della ribellione. Tuttavia, come il lettore potrà notare, al di fuori e addirittura opposto al rituale automatico e impersonale del vocabolario della rivolta. A testimoniarlo, basti ad esempio un passaggio come il seguente

E quella notte apparvero infuocate croci.
Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.
Paesaggio verde e nero
di infrarossi e fanale.
In fila pisciavamo contro il mare.
“Starò con i miei amici
fino alla fine del mondo.”.

che istintivamente ci riporta ad altre prove dell’autore, caratterizzate dalla stessa forza disgraziata, da quel bisogno di “(…) ridere commuoversi gridare / antisociali e belli parlare / a voce alta, parlare sempre…” (dal precedente lavoro di Nota, Il non potere). Appare chiaro come questo esercizio di vitalità non possa che comportare l’abiura di qualsiasi giudizio morale. Al contrario: alla denuncia dall’esterno si sostituisce la dolorosa ma necessaria presa in carico (che non è solo del poeta, ma anche dell’uomo, del ragazzo) delle ossessioni del presente, delle manipolazioni che il potere opera sulle coscienze, finanche sui corpi. Da cui il discorso – ineludibile – sulla sessualità, presente in maniera esplicita nel capitolo “La gravità”, ma che più generalmente pervade l’intera raccolta.
È “un corpo ricusato dalla storia satura” a cercare l’apertura (e a cercarla, irregolarmente, là dove la trova). Il concetto stesso di “chiusura”, che viene riportato nelle due sezioni finali del libro, non può non legarsi a quello di “origine”.
Non può, in altre parole, non fondarsi su un’operazione di recupero:

Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.

Ma questa nuova sete non sarà una semplice ricerca di libertà a partire da una generica condizione di sottomissione (non è questo il caso; e neppure si tratta della ricerca di una montaliana “maglia rotta nella rete”); piuttosto l’abbandono di ogni artificio, che finalmente permetta un contatto con la realtà non più filtrato dal modo.
Il lettore avrà certamente l’occasione non solo di individuare nuovi spunti interpretativi, ma anche di permettere, se dovrà essere il caso, che questo libro lasci una traccia nella propria vita. Considerando, se lo vorrà, ulteriori aspetti.
Per La rimozione e, più in generale, per il lavoro di scrittura di Davide Nota, risulta difficile applicare una definizione di genere che ne identifichi il percorso entro un canale prestabilito (e, d’altra parte, non ci sarebbe ragione di farlo). La sua rivolta del ridicolo non è semplice provocazione, bensì superamento dei concetti di “buono” e “cattivo” gusto. Per usare un riferimento tangibile, Nota è fratello tanto del Rimbaud di “Sensazione” quanto di quello di “Venere Anadiomene”.
Potremmo allora considerare che questo progetto poetico ricada in ciò che Deleuze e Guattari chiamano “letteratura minore”: intesa, naturalmente, non nella scala di valore artistico, ma nell’intento di “(…) fare della propria lingua un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero”, evitando dunque di “assolvere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di Stato, lingua ufficiale”. È questo il luogo della sua rivolta. Con il sogno, che questo libro ci consegna, di superare ogni posa, sfuggendo anche alla macchina della parola.


Da Davide Nota, La rimozione (Sigismundus Editrice, 2011)

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