Nella
poesia di Accattoli è in gioco il resoconto del crescere. Come quel
volume di Pavese, questo potrebbe fare proprio il verso scespiriano:
Ripeness is all. La maturità è tutto, sì; ma è terra di
conquista e di un lungo cammino attraverso l'esperienza della gioia e
del dolore, dove crescere è sinonimo di abbandono, di continuo e
silenzioso mutare.
Lunga
un anno è un libro preciso, compatto; un libro dove la
composizione dei diciannove testi intende mostrare il senso di
un'esperienza che segna un limite nel cammino della vita: la fine di
un amore. La resa di fronte all'abbandono è, si sa, uno dei temi più
diffusi nella letteratura da sempre e oggi ovunque riprodotto da
milioni di oggetti orchestrati per il consumo di massa; ma se esso ha
potuto essere milioni di volte interpretato, a tutti i livelli
culturali possibili, è proprio perché esso rivela una struttura
fondamentale della nostra vita: il lutto che instaura la nostra
separatezza ed individualità, la nostra ineludibile singolarità.
Ecco perché questo titolo, sebbene coincida esattamente con la
cronologia di scrittura (da gennaio 2012 a dicembre 2012) e la denoti
in tutta la sua tecnica referenzialità, allude ad una vastità
semantica attraverso la quale l'espressione lunga un anno si
sovrappone - come la parte che getti la propria ombra oscurando
l'intero - a tutto l'arco di cui è costituita la nostra vita: essa è
uno spazio chiuso, singolare e unitario, continua elaborazione di
quella perdita fondativa.
In
principio era la neve. Bianchissimo l'inizio, è neve sui cantieri,
neve che blocca tutte le costruzioni e tutti gli orizzonti. Due temi
– la neve e i cantieri – che percorrono tutto il libro di
Accattoli, diventando due figure essenziali per capirne lo sviluppo.
Da questa condizione di immobilità esteriore, di splendente
marmorizzazione di tutto il visibile e di ogni efficacia operativa,
si intraprende un cammino che esplora la dimensione invisibile della
lentissima crescita interiore. Un maturare che è dapprincipio dare
attenzione, sentire ciò che si ascolta e ciò che si tocca. Ecco che
“crepano di schianti i rami” e “i nodi cedono nella\ penombra”:
“tutto ci pesa”, ogni cosa ha il proprio peso e il verso, il
metro, lo raccoglie nella voce che scrive. Accattoli può ben dire
“fuorché il tatto, nessuna cosa\ ci contorna e ci spiega”; ciò
che vediamo è distanza, è soltanto “balugine della miopia:
dobbiamo toccare per credere, niente è affidabile nel mutamento
poiché “tutto ha bruciato il gelo delle nevi”. Non per questo lo
sguardo viene abolito in una rarefatta atmosfera in cui ogni cosa
risulta sbiadita, sfumata, imprecisa. Al contrario, le cose emergono
dalla scrittura con una forza d'impatto che annulla ogni gerarchia:
non ci sono più termini alti e aulici, né termini triviali. La
cogenza della neve, il suo peso sopra ogni cosa e la volontà netta
di ascolto interiore permette che tutto appaia, che tutto sia inteso
nel suo senso fondativo, qualunque cosa esso sia. Questa apertura
linguistica, sinonimo di un profondo ascolto di ogni evento, è uno
degli aspetti che maggiormente caratterizzano la scrittura di questo
libro e di questo autore, che non teme – e anzi sa giovarsene
infinitamente – di rappresentare il “vetro opaco,\ alabastro con
un filo d'illuminazione”, come l'essere “feriti dal prezzemolo
tra i denti”; oppure “l'argentato\ farabutto delle schede
gratta&vinci”, come il raffinatissimo “odore ingiallito di
fiori nuziali”. Possiamo trovare la parola letteraria “prece”,
oppure la parola “cruna”; ma anche il comunissimo “sputerò”,
l'insetto “millepiedi” e “l'unto\ amaro che galleggia sul
piatto”: ogni livello gerarchico è annullato dal bianchissimo
bianco della neve che mostra il peso segreto di ogni cosa.
A
questa apertura linguistica che sa aderire ad ogni momento
dell'esperienza rivelandone il peso, si ricollegano alcune poesie
scritte nel dialetto più proprio del poeta: il dialetto di Osimo.
Esse sono solo quattro; ma per bellezza e forza appaiono come vere e
proprie cerniere, snodi cruciali dell'intero libro. La lingua qui
usata non ha nulla di letterario e non è utilizzata per richiudere
sotto ulteriore tegumento una parola che vuole distanziarsi dalla
vita vissuta; al contrario, è un dialetto “sporco”, un dialetto
“bastardo”, parlato e popolare che trova qui forma scritta. È
una lingua elementare che tenta di avvicinarsi ancora di più alla
dizione profonda e interiore, che per larga parte ancora avviene
attraverso questa lingua minore. Un dialetto psichico, potremmo dire,
se con questa espressione si intende la lingua più vicina a quella
voce dell'interiorità, quella voce fatta di altre voci, ascoltate,
partecipate, vissute, che qui viene mostrata e addomesticata quel
tanto che basta per essere finalmente scritta. Qui la poesia di
Accattoli può trovare il suo più proprio accento realistico, ma
come innalzato da una forza mitologica di cui è portatrice questa
lingua che è interiore nella misura in cui è spartita, anonima e
plurale. E allora torna la neve, ma s'è sciolta ed è rimasta la
guazza; passano le stagioni e sulle case dove si muore “ce passa
davanti un cà vecchio e ce piscia”: ogni dolore ha la sua miseria,
ogni domanda sul dolore e sulla gioia è resa ridicola da una vita
che si ostina a continuare con le sue meschinità. E non è forse un
caso che proprio qui, in questa lingua meticcia e viva, emerge con
più forza il tema del crescere, della maturità faticosamente
raggiunta e mai presa. Il ricordo del corpo amato è come un pane
secco, che non si rompe, che resiste nella propria forma anche se
divenuto immangiabile: “pà che non se sfragna e dura”. E questo
corpo, che nell'altro corpo si rammemora e vi si comunica, forma un
bitorzolo pieno di acciacchi, un brodo senza sapore, allorquando si
vede tutto in tutta la propria età: ”bitorzoli ciaccati a
trentanni,\ quadrucci 'nt'un brodo sciapo pe' i dolori\ d'esse
granni”. Il crescere, il gesto che matura e fa maturare, è un
dolore a cui la stessa bellezza della vita ci condanna: “Noialtri
semo acini duri d'uvaspina:\ la pelle ce sbrillucciga del viola,\ la
polpa ce profuma e ce martira”.
Ed
è proprio in questa lingua che emerge una delle immagini più forti
di questo libro, un'immagine capace di racchiudere tutta la forza e
la mutevolezza della soglia luttuosa della perdita. Siamo in una
stagione di pioggia, a metà del cammino del libro: non più nella
neve, ci stiamo avvicinando al mare. (Tutto il libro ha infatti
questa traccia segreta, la scoperta della mutevolezza dell'elemento
liquido attraverso il tempo stagionale che matura). “Adè che piòe\
e piòe”, scrive Accattoli, “sa i culori 'rmasi 'ntatti”, con i
colori rimasti intatti; “guasi scolo\ gioppe 'l muro de confine\
tra lo sfaldo e le betoniére”, quasi scolo, giù dal muro di
confine, tra l'asfalto e le betoniere; “Scialìmo”, perdiamo
consistenza; “e 'nte l'umido l'impronta\ non se tòje né se
smorcia”, e nell'umido l'impronta non si toglie né si smorza. Il
tempo avanza e noi siamo sempre più abbandono di ogni cosa, quasi
scolo d'acqua di risulta che casca a valle, sempre più a valle;
eppure, in questo tessuto umido e in movimento continuo che siamo, il
segno di aver perso, l'impronta, non va via e anzi ci appare come la
sola cosa che ci dona identità: siamo perdita, siamo in ogni
perdita, nella corsa dei giorni e di tutti gli amori di una vita.
L'immagine
della pioggia torna anche nell'ultimo testo dialettale. Ma qui
prepara il finale ed è pioggia che lava nel nuovo inverno che
arriva, dopo l'estate marina. Ed è proprio alla riva del mare che si
apprende la lezione fondamentale, tappa centrale che condurrà alla
maturità raggiunta alla fine del libro. Le due poesie “Maroso” e
“Muta geniale” scoprono l'inutilità della lotta contro ciò che
perdiamo, inutile ogni rancore: “[...] E vedere ci appartiene,
quanto l'ocra\ della spiaggia cui non sappiamo rinunciare.\ Perché
ci somiglia questo tratto di riviera,\ il neutro maroso dei giorni\
in cui non sono stati salvati momenti\ alcuni, né insegnamenti, né
le vittorie\ che ci aspettavamo”. Nulla si salva, tutto è
assorbito dal ritmo vasto, ipnotico di quel bellissimo verso: “il
neutro maroso dei giorni”; eppure da questa vita, dalla ricchezza
dei suoi “saluti” e dei suoi “arrivederci”, non sappiamo
staccarci.
Abbiamo
visto come la scrittura di Accattoli indaga i momenti di cui è
costituito il crollo, ne sonda i ricordi e le amarezze così come
provengono dall'abbandono degli abbandoni. Di rovina in rovina, di
ricordo in ricordo, la scrittura va incontro ad una lenta
maturazione. Il lettore ne è coinvolto, mentre prosegue, leggendo,
poesia dopo poesia; sente una vibrazione minuta percorrere il libro e
infine uno scarto si affaccia dopo un lungo anno di attenzione e di
ascolto di ogni minima frattura interiore. Nell'ultima poesia, che
porta il titolo del libro, si va oltre il dolore e oltre il crollo.
Scrive Accattoli: “siamo stati all'ombra troppo tempo”.
Finalmente “ognuno dal suo lato\ vede la presenza dell'altro” e
insieme “la presenza di se stesso”. A partire da questa scoperta,
luminosa e splendente di “singoli bagliori”, reso ognuno
finalmente consapevole, la scrittura può tornare alla ricerca
dell'altro e della condivisione dell'altro nella sua pienezza e nella
sua gioia. Il prossimo libro di Accattoli non sarà un libro di
dolore; la sua futura poesia tornerà, ora più matura, finalmente ad
essere plurale, a cercare nella parola quella spartizione dell'umana
voce che è più sua.
Tommaso
Di Dio, Milano
2013
[Premessa a Lunga un anno di Francesco Accattoli, Sigismundus 2013, con illustrazioni di Linda Carrara]