SULL’AUTOMA
Appunti a margine del lavoro di Carlo Sini
L'uomo, la macchina, l'automa
Torino 2009
pp. 124
euro 14
Il movimento, il segnale e il segno
Carlo Sini è tra i più importanti e decisivi pensatori contemporanei. Attentissimo, nella mole immane della sua ricerca a focalizzare il pensiero su argomenti tanto problematici quanto ficcanti del contemporaneo. E la sua ultima pubblicazione, da questo punto di vista, non smentisce la regola.
È infatti uscito quest’anno, per Bollati Boringhieri, un suo volume, L’uomo, la macchina, l’automa: dal sottotitolo, “lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto”. Un libro importante, tanto per i temi trattati che per la sconcertante capacità si sintesi dello stesso Sini, nello scrivere una panoramica di un argomento che è la vertigine e la dannazione della società attuale post-fordista: l’automazione, la tecnologia, nel suo senso più originario e nella sua deriva giornaliera.
Scrive Carlo Sini, nel primo capitolo del libro: ‹‹in principio è il movimento, si potrebbe dire, ovvero ciò che fa differenza. Qualcosa si muove e muove qualcos’altro, e così via. È indifferente che quel qualcosa che si muove tu lo chiami Dio, materia, evoluzione ecc. È indifferente che si tratti della mano dell’uomo o del suo piede o ancora della sua cosiddetta volontà; è lo stesso che si tratti dell’acqua del torrente, del vento nella vallata o della ruota dei mulini, quei mulini che da lontano sembrano giganti che agitano le braccia. Indifferente è la qualità del principio, se il principio è il movimento, la sua azione; infatti tutto ciò che ne puoi dire e pensare viene dopo e per sua diretta conseguenza. In principio è l’azione ed è in virtù di questa azione che poi la si qualificherà, per esempio nella differenza del nome. Nel qualificare, l’azione è già in azione, in una sua figura, differenza o conseguenza in atto››.
Dal movimento poi scocca come “automatica” una proiezione retroflessa su ciò che tale energia “investe”. E qui il discorso di Sini inizia a farsi suggestivo, coinvolgente. Perché si passa dal movimento alla protesi. In maniera spiazzante.
Che cos’è difatti la “protesi”? La parola, nel suo essere polisemico, rimanda a due verbi greci, protithemi (mettere innanzi, presento, espongo, assegno) e prostithemi (pongo appresso, accosto, aggiungo, convengo, aderisco). E da qui in poi Sini svela la doppiezza del corpo…
Anzitutto nel senso che la sua azione piega il mondo ai suoi fini. Viene dal mondo, è mondo, ma anche usa il mondo […]. Ma, per altro verso, nell’agire il corpo discrimina l’azione del mezzo: è così che il corpo si fa doppio. Discrimina l’azione del mezzo, ma anche, proprio distinguendoli, in certo modo li unifica. Agendo il corpo distanzia da sé il mondo e insieme lo approssima. È mondo che si staglia nel mondo, che vi prende posto. Sebbene provenga dal mondo e non sia altro che mondo, il corpo, agendo, discrimina dal mondo lo strumento, il mezzo (e anche il contesto), rispetto al fine dell’azione.
[…] Il corpo in azione, potremmo concludere, fa di se stesso una ‹‹protesi››.
Giocoforza, ora, non si può non avere la “tentazione” di intersecare le riflessioni siniane sul tema, a alcune logiche “variazioni”. E lo spunto ce lo da l’antropologia, a proposito delle tecniche del corpo, voce tra le più importanti nel panorama della “grammatica” e delle “patografie” del corpo umano.
Il CORPO, sosteneva Mauss (1936), è il primo e più naturale degli utensili umani. A partire da questa considerazione egli dava avvio allo studio del carattere culturalmente determinato e socialmente appreso dei movimenti (nuoto, marcia ecc.) e delle posture corporee, sottolineandole sia l’intrinseca variabilità etnografica, sia l’evolversi nel corso del CICLO DI VITA individuale.
Le tecniche del corpo possono essere qualificate con due attributi: “tradizionali” ed “efficaci”. E, inoltre, i movimenti possono comunicare significati (COMUNICAZIONE, SIGNIFICATO) senza che siano presenti quelle funzioni di codificazione e simbolizzazione che precedono il LINGUAGGIO e per comprenderli non è sufficiente sapere di che cosa costituiscono il SEGNO. Spesso essi dicono più delle parole, e nel contesto del RITUALE permettono di trascendere le distinzioni che dominano nella vita quotidiana. Bourdieu (1977) individua una stretta relazione fra l’ordine produttivo, tecnico e sociale e le posture corporee. Si assiste infatti a una sorta di somatizzazione della CULTURA, grazie alla quale le fondamentali opposizioni da cui essa risulta costituita vengono affidate in forma abbreviata alla MEMORIA dei corpi.
Come legge invece Sini la triangolazione “corpo”, “segno”, “memoria”? Certamente, da un punto di vista, semiologico, memore della lezione "praticata" di C. S. Peirce, che vede il ruolo fondamentale come medio aristotelico del segno stesso. Difatti, ‹‹il segnale non significa; il segnale soltanto sostituisce senza ‹‹rappresentare››. Per esempio, il ringhio di un cane segnala a un altro cane la sua ostilità. Il secondo cane, diceva George Herbert Mead, non è per questo in grado di pensare ‹‹quel cane mi è ostile››; il secondo cane prende il ringhio semplicemente come un segnale che lo induce a una reazione di paura e di fuga; oppure a una reazione aggressiva. C’è un accomodamento reciproco nell’azione dei due cani (aggredire, fuggire, inseguire ecc.), ma nessuna ‹‹comprensione›› di ‹‹significati››. Il segno invece veicola significati che suscitano abiti di risposta ‹‹comprensivi›› (non solo agisco, ma ‹‹so›› cosa tu intendi e cosa io faccio rispondendo). Ma che cos’è un ‹‹significato››? Utilizziamo in proposito la soluzione proposta da Peirce (l’unica a mio avviso davvero convincente): significato è ciò che caratterizza l’ ‹‹abito di risposta››, inteso come ‹‹ciò che si è pronti a fare in comune››. […] La definizione poggia su quell’ ‹‹in comune›› (ciò che si è pronti a fare in comune). Ora, anche la macchina è ‹‹pronta a fare››; a suo modo è dotata di abiti di risposta; al suono toc apre lo sportello di destra e fa cadere un numero pari di biglie ecc. Non ha però modo né di spiegare né di spiegarsi che cosa fa, non può renderne conto né rendersene conto, non può dire: ‹‹ma perché sono pari…››. Che lo fa è tutto; non può però aggiungerne la ragione: perché sono pari, appunto››.
Sini a questo punto è chiaro, stabilendo che sia solo il segno ha implicare una “comunità linguistica” (il segno, non una lingua, qualsiasi lingua – concetto più vago di quel che possa sembrare, se dissociato dai rispettivi fenomeni etnici e storici). Il gesto perciò, essendo dello statuto del “segnale”; indica. Mentre il segno significa. E da questo aspetto pare allora chiaro come sia una immagine, che una parola, possono essere nello statuto del segno in quanto, seppur nelle diverse loro modalità, sono significanti.
In una comunità linguistica si è pronti a fare qualcosa in comune in base a risposte retroflesse, cioè in base a risposte che hanno come referente lo stesso locutore (il quale proprio per questo è un locutore, vale a dire che egli è in grado di dire contemporaneamente a se stesso ciò che significa agli altri). La condivisione del fare è accompagnata da una condivisione del sapere (ciò che si fa). È in tal modo che le risposte frequentano significati, hanno significato, sono significative. Possono infatti spiegarsi, dar conto, dire perché.
E, aggiungiamo noi con umiltà, possono “lavorare” sulla piega, sul ri-piegamento, sul dis-piegamento del senso. E dei sensi.
Gianluca Pulsoni
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