Le cause del debito europeo e il che fare
[di Domenico Moro]
1. Un passaggio di fase storica
La crisi del debito sovrano europeo sta determinando una guerra non guerreggiata tra Stati, tra aree valutarie, soprattutto una guerra di classe. Oggetto di questa guerra sono i lavoratori, che subiscono un attacco senza precedenti al salario e al welfare, con possibili ripercussioni sui livelli di democrazia. I governi adottano politiche restrittive nel tentativo di ridurre il debito con l’effetto di ridurre la crescita e aumentare il peso percentuale del debito sul Pil. Praticamente l’economia europea si trova in un cul de sac. Confindustria ripete il solito refrain, la richiesta delle salvifiche “riforme” di struttura: privatizzazioni, riduzione delle tasse per le aziende, riduzione del costo del lavoro, aumento dell’età pensionabile, abolizione del contratto nazionale. Tutte misure, alcune già adottate nel passato, che ci hanno portato alla situazione in cui siamo, e che ora la aggraverebbero.
Il problema è che, in questo momento, l’attenzione è monopolizzata da due fenomeni. Il primo è il debito pubblico, che assurge al ruolo di male assoluto, tanto che si pretende l’introduzione nelle Costituzioni europee del pareggio di bilancio obbligatorio. Una decisione paradossale e nei fatti inattuabile, che va contro la storia economica, in cui il debito pubblico ha rappresentato il mezzo di affermazione del capitalismo e lo strumento per far decollare economie arretrate o tamponare le crisi. Il secondo è l’euro. Oggi, tutti si rendono conto che l’introduzione di una moneta unica senza un minimo di unità politica, e soprattutto senza un bilancio e un sistema fiscale comuni, affidandosi unicamente al libero mercato, è stata un errore. Il punto, però, è che debito pubblico ed euro rappresentano o delle conseguenze o delle aggravanti delle vere cause che, invece, rimangono sullo sfondo. Per individuare queste cause bisogna partire da due fatti. Il primo è la crisi del centro dell’economia capitalistica - Usa, Ue e Giappone - e il perdurare del ristagno della crescita di queste aree. Infatti, i problemi dell’euro si sono manifestati a seguito della crisi del 2008, e se ne è avuta una recrudescenza con il vanificarsi della ripresa. Il secondo, collegato al primo, è lo spostamento del baricentro economico mondiale dall’Occidente e dal centro dell’economia mondiale alla periferia, Cina, India, Brasile, ecc. Si tratta di un passaggio di fase storica, che avviene dopo cinque secoli di ascesa e due secoli di dominio europeo ed occidentale. Negli anni ‘80 e ‘90, il debito era il problema delle aree periferiche - Africa, Asia, Europa dell’Est e America Latina - caratterizzate da bancarotte e crisi di liquidità dovute alle decisioni finanziarie dei Paesi del centro. Ora, il debito è diventato il problema dei Paesi ricchi, dipendenti semmai dai finanziamenti di altre aree mondiali con forti surplus commerciali. L’Europa subisce maggiormente la crisi del debito a causa delle specifiche condizioni della moneta unica, ma il problema del debito è comune, e per alcuni versi più grave, negli Usa e in Giappone. Ad ogni modo, sono i metodi con cui si è cercato di risolvere la crisi a determinare la situazione in cui ci troviamo.
2. La crisi e il controproducente “keynesismo” finanziario.
La crisi del debito sovrano è un effetto della caduta di redditività degli investimenti di capitale determinatasi nei Paesi più avanzati a partire dalla crisi del ‘74-‘75[1]. Secondo lo schema interpretativo di Arrighi la storia dell’economia capitalistica si caratterizza per dei cicli lunghi di accumulazione, in cui ad una prima fase di boom segue una fase di caduta della redditività[2]. Nel tentativo di uscire da questa fase di difficoltà l’economia o le economie dominanti si spostano dal terreno della produzione di merci al terreno della finanza, che dà luogo ad una ulteriore fase espansiva, destinata però a dissolversi in una situazione di caos e conflittualità interstatuale. Tale schema viene applicato da Arrighi anche all’epoca attuale, in cui gli Usa, dalla metà degli anni ’70, hanno sviluppato in modo sempre più intenso l’aspetto della finanziarizzazione nel tentativo di rialzare la redditività del capitale. Il periodo clintoniano ha rappresentato un salto in tale direzione, con la globalizzazione dei mercati finanziari e l’eliminazione della legislazione della Grande crisi degli anni ’30. La finanziarizzazione è proseguita con Bush II allorché, per rispondere alla crisi seguita allo scoppio della bolla di internet e sostenere i consumi, si è formata un’altra bolla, questa volta immobiliare. Il debito immobiliare è stato trasformato in prodotti finanziari, i derivati, che sono stati venduti in tutto il mondo. Quando anche la bolla immobiliare è scoppiata, le banche si sono ritrovate con i bilanci pieni di miliardi in mutui inesigibili e derivati ridotti a carta straccia. A questo punto, di fronte alla imminente bancarotta di banche e assicurazioni lo Stato è intervenuto massicciamente. Non a caso in Usa sono stati gli hedge funds ad appoggiare l’elezione di Obama, che ha affidato i ministeri economici a uomini di fiducia di Wall street, e di fatto da quasi tre anni è lo stato a tenere in piedi le banche[3]. La speculazione, pur individuata come causa della crisi dei subprime, non solo non è stata combattuta ma è stata alimentata. Le banche hanno investito i finanziamenti ricevuti a tassi vicini allo zero, in Usa addirittura a tassi reali negativi, in titoli di Stato con rendimenti molto superiori. Neanche l’immissione di liquidità attraverso i Quantitative easing I e II, basati sull’acquisto di titoli di stato da parte della Banca centrale Usa, si è tradotta nella moltiplicazione del credito alla produzione e in nuovi posti di lavoro ma in investimenti speculativi sui futures delle materie prime. Quindi, mentre il governo ha mantenuto gli sgravi fiscali di Bush II per i ricchi e si è indebitato per salvare le banche e le società finanziarie, queste hanno potuto realizzare alti profitti speculativi. Banche e società finanziarie hanno investito nel mercato internazionale dei titoli di stato, approfittando delle turbolenze e giocando sulla variabilità dei cambi valutari e sulle difficoltà dell’euro, come sta accadendo anche nel caso dell’Italia, il cui debito è per il 51% in mani straniere[4] e a luglio era ancora per 30% nelle mani di banche europee e solo per il 15% nelle banche italiane[5]. È evidente che un debito pubblico in mani estere e non della Banca centrale sia soggetto a disinvestimenti e quindi all’innalzamento dei rendimenti e a difficoltà di rifinanziamento. L’allargamento al di sopra della quota 300 punti degli spread dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi è iniziato con il disinvestimento di fondi Usa a luglio scorso. Rispetto allo scoppio della bolla dei subprime la finanziarizzazione è addirittura aumentata, passando da quattro a otto volte le dimensioni dell’economia “reale”. A fronte di un prodotto interno lordo mondiale di 74mila miliardi di dollari, le borse pesano 50mila miliardi, le obbligazioni 95mila e i derivati 466mila miliardi[6].
3. Mondializzazione, esportazioni di capitale e riduzione della base produttiva
La caduta della redditività, che si sostanzia nel calo tendenziale del saggio di profitto, ha determinato l’accentuazione di un fenomeno che è tipico delle economie capitalistiche ad un certo stadio di sviluppo, ovvero la prevalenza delle esportazioni di capitale sulle esportazioni di merci[7]. Oltre agli investimenti finanziari, che rappresentano i cosiddetti investimenti di portafoglio, sono aumentati esponenzialmente gli investimenti produttivi, gli Ide (investimenti diretti all’estero). Si tratta di un fenomeno studiato già all’inizio del XX secolo nella teoria dell’imperialismo[8], solo che a quell’epoca gli investimenti produttivi erano indirizzati soprattutto verso infrastrutture e materie prime e verso le colonie dei singoli Stati. Negli ultimi venti anni questo fenomeno si è accentuato qualitativamente e quantitativamente, interessando la produzione manifatturiera, modificando la divisione internazionale del lavoro e realizzando il mercato mondiale. Una quota sempre maggiore di investimenti produttivi è stata dirottata verso paesi che potevano garantire un saggio di profitto più alto, come l’America Latina, l’Europa orientale e soprattutto l’Asia orientale. La spinta è il divario nel costo del lavoro, che nelle aree periferiche è molto più basso. Per le multinazionali italiane il costo del lavoro in Brasile è il 42% di quello sostenuto in Italia, in Romania 13% e in Cina il 7%[9]. Di conseguenza, lo stock degli Ide in uscita dai Paesi sviluppati è incrementato molto più del valore delle merci esportate. Anche il nostro Paese, storicamente esportatore di merci piuttosto che di capitale, ha visto un aumento esponenziale, inferiore solo a quello registrato da Francia e Germania, del suo stock di Ide in uscita, che è passato dai 60,2 miliardi di dollari del 1990 ai 578,2 del 2009, mentre nel medesimo periodo di tempo la quota di beni e servizi esportata è passata dal 19,1% del Pil al 29,1%. Inoltre, lo stock di Ide in uscita ha superato la quota di Ide in entrata in molti Paesi avanzati, tra cui l’Italia, dove, mentre nel 1990 il valore degli Ide in uscita e in entrata si equivaleva, nel 2008 lo stock in uscita era quasi doppio rispetto a quello in entrata[10]. Questo processo ventennale ha determinato due conseguenze. In primo luogo, si è realizzato uno spostamento del baricentro della produzione manifatturiera verso i Paesi emergenti. Questi oggi detengono più della metà delle esportazioni mondiali, nel 1990 solo il 27% e producono il 38% del Pil mondiale a prezzi correnti, il doppio rispetto al 1990. Ma soprattutto negli ultimi dieci anni i Paesi emergenti hanno pesato per i tre quarti della crescita del Pil mondiale[11]. In secondo luogo, lo spostamento della produzione, anche mediante delocalizzazioni, ha ridotto gli investimenti e la base produttiva nei Paesi centrali, le cui economie si sono terziarizzate. Si è così ridotta l’accumulazione di capitale e la crescita del Pil, determinando anche una riduzione della crescita delle esportazioni, mentre, nello stesso tempo, le importazioni sono aumentate, proprio dalle affiliate estere delle multinazionali occidentali. Le multinazionali manifatturiere italiane, ad esempio, esportano dalle loro affiliate mediamente il 40% del fatturato. Si afferma, dunque, una tendenza all’aumento del debito commerciale con l’estero, cui si aggiunge il saldo negativo dei flussi di capitale, che provoca la crescita del saldo negativo della bilancia dei pagamenti. Il meccanismo sommariamente descritto incide sull’aumento in percentuale del debito pubblico sul Pil non solo perché deprime la crescita del denominatore, cioè il Pil, e quindi del gettito fiscale, ma anche perché, spingendo la domanda pubblica a compensare la riduzione di quella privata, aumenta il numeratore, cioè le dimensioni assolute del debito. Inoltre, i Paesi con saldi negativi nello scambio di merci e capitali con l’estero dispongono di minori risorse per coprire i pagamenti del debito pubblico[12].
4. Riforme del mercato del lavoro, riduzione della produttività e della competitività
L’altra ragione del rallentamento della crescita del Pil è stata la compressione dei salari, altra modalità del capitale per compensare la caduta del saggio di profitto, che ha portato alla riduzione della crescita della produttività. Questo fenomeno ha interessato tutta l’Europa occidentale, manifestandosi in modo più accentuato in Italia e in altri Paesi mediterranei. Fino agli anni 90, l’Europa era andata riducendo il divario di produttività con gli Usa. A partire da quella data si verifica una inversione di tendenza, a causa del mutamento delle politiche pubbliche europee. Mentre negli anni 80 si era reagito alla crescente disoccupazione con lo sviluppo del welfare, a partire dagli anni 90 è prevalsa l’impostazione secondo cui la liberalizzazione del mercato del lavoro fosse la risposta migliore alla disoccupazione, in ottemperanza anche delle direttive dell’OECD Jobs strategy (1994) e dell’agenda di Lisbona (2000). Le (contro)riforme del mercato del lavoro, unitamente all’aumento dell’immigrazione e della partecipazione femminile al lavoro, hanno determinato un aumento dell’offerta di lavoro a prezzo più basso. Di conseguenza, come sempre accade in questi casi, è venuta meno da parte delle imprese la spinta ad investire in innovazione e tecnologia, passando a metodi meno capital intensive[13]. Le riforme del mercato del lavoro hanno così determinato la conseguenza, apparentemente non voluta, di deprimere la produttività totale, affidandosi all’aumento della produttività del solo fattore lavoro che è cresciuta, così come le ore effettivamente lavorate, che in Italia sono per addetto annualmente 150 in più della media Ocse (2007)[14]. L’intensità della deregulation nel mercato del lavoro è stata più forte in Spagna e soprattutto in Italia, il cui indice Ocse di protezione del lavoro (EPL) è passato, tra 1996 e 2001, da superiore a molto al di sotto di quello di Germania e Francia[15]. I risultati sono emblematici. La crescita della produttività italiana, mentre negli anni ‘70 era la più alta (+6,8%) tra quella delle prime sei economie industrializzate - grazie all’aumento degli investimenti di capitale in risposta al recupero salariale dovuto alle lotte operaie partite con “l’autunno caldo”- negli anni 90 subisce un crollo, divenendo la più bassa (+2,1%), e negli anni 2000 diventa addirittura di segno negativo (-0,2)[16]. Di conseguenza, dopo ogni crisi il Pil dell’Italia è ripartito sempre più lentamente. Negli anni 80 la crescita trimestrale del Pil era del +0,70%, dopo la crisi del ’92 era del + 0,57%, dopo la crisi del 2001 del +0,36% e, dopo il 2009, del +0,29%[17]. Purtroppo, l’Italia non è stata la prima della classe solo nella precarizzazione, ma anche nella introduzione, durante gli anni 80 e 90, dell’organizzazione toyotista del lavoro, fondata sul subappalto, che ha accentuato il nanismo delle imprese e quindi la riduzione dei salari, degli investimenti di capitale e dell’innovazione. E nelle privatizzazioni, che, da una parte, hanno offerto ulteriore occasione di distrazione degli investimenti dalla produzione manifatturiera verso la rendita dei monopoli naturali e, dall’altra, hanno eliminato o indebolito le poche aziende nazionali di grandi dimensioni e presenti in settori avanzati. Giustamente Confindustria e Banca d’Italia fanno notare che il nostro Paese è arrivato alla crisi del 2008, a differenza degli altri Paesi avanzati, dopo un decennio di stagnazione a causa del progressivo calo di produttività. Il punto è che entrambe si guardano bene dall’individuare la causa del calo della produttività e della crescita nella precarizzazione del lavoro e nelle altre misure, che esse hanno imposto negli ultimi venti o trent’anni, continuando imperterrite sulla stessa linea nell’assurda speranza di raddrizzare la situazione.
5. L’euro ad immagine ed interesse della Germania
Il problema del debito, sovrano e commerciale, e lo squilibrio della bilancia delle partite correnti riguarda un po’ tutti i Paesi industrializzati del centro dell’economia-mondo. L’Italia, che è il secondo esportatore e la seconda potenza manifatturiera europea, dopo aver visto per diversi anni ridursi il proprio surplus, presenta un debito commerciale sempre più ampio (-50,7 miliardi ad agosto, ultimi dodici mesi), segno del manifestarsi, con la crisi, delle conseguenze dei fattori negativi (riduzione produttività, nanismo, privatizzazioni) di cui abbiamo parlato. C’è però una eccezione. Si tratta della Germania, che detiene il surplus commerciale più grande del mondo: negli ultimi dodici mesi ben 198 miliardi di dollari, contro i 174 miliardi della “fabbrica del mondo” cinese, e in aumento rispetto all’inizio della crisi. La ragione di questa situazione è il fatto che la Germania ha beneficiato, di fronte alla globalizzazione, di due barriere protettive, la Ue e soprattutto, all’interno di questa, l’area euro. L’abolizione delle valute nazionali nell’area euro ha permesso all’industria tedesca di sfruttare la maggiore competitività dovuta alla più alta produttività. Gli altri Paesi europei sono diventati in questo modo una specie di mercato interno allargato per il gigante tedesco. Le aziende degli altri paesi dell’area euro si sono trovate in difficoltà a competere con quelle tedesche, non potendo più opporre alle più efficienti imprese tedesche la svalutazione competitiva delle valute nazionali, ormai abolite, e sono rimaste penalizzate dalla forza dell’euro nelle esportazioni extra Ue. Inoltre, la massiccia liquidità iniettata nell’economia mondiale dopo la crisi del 2001, e la bolla immobiliare hanno incrementato le importazioni, favorendo l’aumento dell’indebitamento delle famiglie europee, soprattutto con il sistema bancario tedesco. La conseguenza è stata la crescita del debito commerciale con l’estero in Spagna, Grecia, Portogallo, ecc. Questo meccanismo ha retto fino alla crisi dei subprime. A questo punto, le banche europee, piene di debiti delle famiglie europee, hanno rischiato di fallire, e gli stati, assorbendone il debito per evitare che fallissero, hanno rigonfiato il loro debito sovrano.
Il problema è che se il “sistema euro”, da una parte, favorisce la creazione dei debiti sovrani e commerciali, dall’altra, non permette di affrontarli con decisione, perché ha abolito gli strumenti solitamente utilizzati a questo scopo, come la possibilità per le banche centrali nazionali di acquistare debito pubblico direttamente, e non li ha sostituiti con istituzioni e strumenti a livello europeo. La Bce, che sostituisce le banche centrali nazionali, per statuto, a differenza della Fed Usa, ha come obiettivo primario non il sostegno alla crescita ma la stabilità monetaria, che si traduce in alti tassi d’interesse e attenzione prioritaria all’inflazione. Di conseguenza, anche il costo del finanziamento del debito rimane alto e l’acquisto dei titoli è dipendente dai mercati finanziari e quindi dall’estero, con i problemi che ne conseguono. L’obiettivo che sta dietro questo tipo di unione monetaria è avere una valuta forte, in modo da ridurre il costo delle materie prime (trattate in dollari), poter acquistare più facilmente imprese e fare investimenti produttivi all’estero e, infine, attirare quote di surplus mondiale alla ricerca di destinazioni alternative al dollaro. In pratica la Germania vuole la classica “botte piena e la moglie ubriaca”, ovvero mantenere bilanci statali (e debiti) nazionali e moneta e tassi d’interesse comuni. Vale a dire poter esportare, facendo funzionare il suo sistema industriale a pieno ritmo, senza farsi carico delle conseguenze.
6. Che fare?
In primo luogo, bisogna ripartire dalle basi nazionali di classe nel senso di rinforzarsi nei singoli Paesi europei. Bisogna però estendere il terreno di lotta ad un livello europeo. Se siamo stati sconfitti nella fase storica precedente è stato per due ragioni. La prima sta nel fatto che il capitale ha acquisito una dimensione transnazionale e ha giocato sulle differenze di costo del lavoro e valutarie nelle varie aree e Paesi. La seconda ragione sta nell’affermazione, a livello Ue, dello scambio tra precarietà e occupazione. Se il capitale ha fatto un salto di livello, non c’è alternativa, anche i lavoratori devono farlo. In pratica va intrapreso un processo di collegamento tra le forze politiche e sindacali del movimento operaio europeo. Si tratta di un processo di difficile attuazione, che si scontra con differenze culturali e linguistiche, interessi e resistenze corporative e con le divisioni tra i partiti della sinistra di classe e comunisti. Il fatto è che la storia e il movimento oggettivo dell’economia vanno in una certa direzione e non si può arrestare questo movimento, bensì inserirsi in esso. C’è sempre un ritardo nell’adeguamento della classe operaia al livello del capitale. Anche quando il movimento del capitale ha portato alla nascita degli stati nazionali si è registrato questo ritardo, ma, attraverso un processo più o meno lungo e drammatico, la classe si è adeguata al livello di sviluppo del capitale. La Ue e l’area euro possono rappresentare un terreno di ricomposizione della classe lavoratrice europea. Ciò non è avvenuto, fino ad ora, per le ragioni che dicevamo, ma questa crisi può offrire l’occasione per farlo, sforzandosi di trovare le forme di coordinamento più adeguate e un programma comune. L’errore principale è rinserrarsi su una posizione di difesa, che tende a stabilirsi su una linea sempre più arretrata. Bisogna avere la capacità, anche se si è minoranza, di non essere minoritari e di proporsi come forza, insieme nazionale ed europea, in grado di indicare soluzioni generali, ed aggregare consenso intorno ad esse. Abbiamo tentato di sintetizzare i punti più importanti qui di seguito.
A) La gravità di questa crisi deriva dall’aumento dell’anarchia della produzione-circolazione del capitale e dall’estensione del mercato mondiale. Ciò ripropone l’attualità storica della pianificazione e dell’organizzazione sociale della produzione. Tale attualità, se non va intesa come immediata attuabilità, non va neanche vista come una specie di “sol dell’avvenire” che sta su uno sfondo che un tempo si raggiungerà. Viceversa, deve essere un punto di riferimento strategico sulla base della quale elaborare una tattica conseguente.
B) Il mercato autoregolato ha fallito, quindi, a livello nazionale, va riaffermato il ruolo dello Stato, che però non deve essere subalterno al profitto né assolvere al ruolo di “socializzatore delle perdite”. Lo Stato non può limitarsi al ruolo di regolatore del mercato, ma deve rientrare nella produzione a partire da quella di servizi in regime di monopolio fino alle produzioni avanzate e innovative, che i privati non coprono, spingendosi fino alla nazionalizzazione delle banche. In Italia questo ruolo produttivo e finanziario va esplicitato soprattutto al Sud, il cui divario rispetto al Nord, crescente proprio a partire dalla fine della Partecipazioni Statali, è pericoloso sul piano economico e politico.
C) A livello europeo, lo statuto della Banca centrale europea va modificato, affinché il suo compito principale non sia più la stabilità valutaria e la lotta all’inflazione, ma il sostegno all’economia e alla crescita. Inoltre, vanno affermate forme di bilancio e di fiscalità europea che permettano, attraverso un debito comune, di ripartire gli oneri e i vantaggi dell’unione valutaria tra gli stati forti e quelli deboli.
D) I problemi connessi al debito pubblico derivano, in primo luogo, dalla stagnazione della crescita. Quest’ultima dipende dalla perdita di produttività che, a sua volta, nasce sia dal ritiro dello Stato dai settori economici più avanzati sia dalle riforme del mercato del lavoro, che hanno abbattuto il costo del lavoro e scoraggiato gli investimenti. Ricercare aumenti della produttività mediante riduzione del costo del lavoro e altra “liberalizzazione” del lavoro, come si sta riproponendo oggi, è il contrario di quello che bisogna fare. Quindi, va detto chiaramente che l’abolizione delle riforme del mercato del lavoro e l’ aumento della produttività del fattore capitale attraverso nuovi investimenti non è soltanto una difesa degli interessi dei lavoratori salariati, ma anche di quelli di tutto il Paese.
E) Il rigonfiamento del debito pubblico italiano (e di altri Paesi) dipende, oltre che dalla socializzazione delle perdite capitalistiche, anche dalla riduzione della pressione fiscale per i ricchi, che non avviene solo attraverso l’evasione e l’elusione, ma attraverso il quasi annullamento della progressività fiscale e la diminuzione delle imposte alle imprese (ad esempio l’Ires)[18]. Visto che il capitale ed i suoi partiti propongono una loro riforma fiscale, noi dobbiamo proporre una nostra riforma fiscale, che ristabilisca, in primo luogo, l’impostazione progressiva che aveva l’Irpef al momento della sua introduzione.
Domenico Moro. Laureato in sociologia, è consulente e ricercatore indipendente. Collabora come giornalista free lance a quotidiani e periodici nazionali. Si interessa soprattutto di questioni di economia e politica internazionale, spaziando dalla condizione dei lavoratori alla geostrategia ed alle questioni militari. Recentemente si è occupato del rapporto tra crisi e mondializzazione alla luce della teoria di Marx con la pubblicazione del "Nuovo Compendio del Capitale".
Note
[1] Per una trattazione più esauriente vedi Domenico Moro, “Lo scontro euro-dollaro dietro la crisi del debito sovrano Ue”, l’ernesto on line.
[2] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 2003. Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.
[3] Mario Margiocco, “Il patto di Obama tradito dai banchieri”, Il Sole24ore, 6 agosto 2011.
[4] FMI, Global Financial stability report. Chapter I.
[5] Isabella Bufacchi, “Il 30% dei nostri titoli in mano a banche europee”, Il Sole24ore, 12 luglio 2011.
[6] Morya Longo, “Finanza e derivati otto volte più forti dell’economia reale”, Il Sole24ore, 6 agosto 2011.
[7] Per una trattazione dei metodi usati per risolvere la crisi vedi K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap. XIV “Cause antagonistiche”.
[8] Sulla teoria dell’imperialismo vedi Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo e John A. Hobson, Imperialismo.
[9] Istat, Struttura, performance e comportamenti delle multinazionali italiane (anni 2008-2011). – 27 ottobre 2010.
[10] OCSE Factbook 2010, “Economic, Environmental and Social Statistics. Outward and inward FDI stocks”.
[11] Economist focus, Why the tail wags the dog, The Economist August 6th 2011.
[12] Emiliano Brancaccio, “Ma il vero problema è il deficit commerciale”, Il Sole24ore, 6 luglio 2011.
[13] Hanan Morsy and Silvia Sgherri, After the crisis Assessing the Damage in Italy. IMF Working Paper. Ian Dew-Becker and Rober J. Gordon, The Role of the Labour-Market Changes in the Slowdown of European Productivity Growth, CEPR version, January 14, 2008.
[14] Oecd Factbook 2010, “Labour, Employment and Hours worked”. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/oecd-factbook_18147364
[15] Oecd. Stats Extracts. Labour, Employment Protection. http://stats.oecd.org/index.aspx.
[16] Us Department of Labor, Bureau of Labor statistics, December 2010. http://www.bls.gov/fls/#productivity
[17] Riccardo Sorrentino, “Dopo ogni crisi l’Italia riparte sempre più piano”, Il sole24ore, 15 maggio 2011.
[18] L’Ires si applica alle società di capitali. La sua aliquota era fissata al 33%, dal 2008 è al 27,5%.