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lunedì 28 settembre 2015

L'INAPPAGABILE. APPUNTI A MARGINE DEI "FIORI DEL MARE" (1984-2014)

Il linguaggio alfabetico sovraesposto ha esaurito la sua incidenza. Ogni formato di divulgazione linguistica si neutralizza automaticamente (meccanicamente) nel rumore di fondo evolutosi dal brusio mediatico della televisione al flusso semantico virtuale del web. In questo accumulo bulimico di segni alfabetici e verbofonici una lingua del silenzio appare forse come lʼultima ipotesi di salvezza che ci è data.
Una lingua del silenzio. Non uno “stare in silenzio” ma un “adibire il vuoto”. Per abitarlo. Essere in in grado (nella grazia) di silenziare lʼabbaglio storico. Nel vuoto appare un oggetto e in questo rapporto tra spazio e visione la vita umana torna a significare.

Leggi l'intero brano sul nuovo libro di Gianni D'Elia: qui

mercoledì 1 dicembre 2010

SOFRI, NON CALPESTARE LA POESIA!

di Luigi-Alberto Sanchi


L'articolo commesso da Adriano Sofri su "La Repubblica" del 27 novembre 2010 ha qualcosa di irreale nella sua soave ignoranza. Sembra voglia battere tutti i record della contradditorietà: parla della lingua italiana trascurata ma la scrive in modo sciatto, dice ai giovani che i Palazzi del potere sono vuoti e non si accorge che lui stesso si trova in uno di essi, un Palazzo mediatico strapotente; informa sulla poesia neogreca disinformando al contempo su quella italiana; soprattutto, tuona che in Italia oggi la poesia impegnata non esiste... allorché lui stesso è stato per più d'un decennio al centro delle scritture poetiche e civili di Gianni D'Elia, uno dei più importanti rappresentanti della poesia italiana contemporanea (assieme a Franco Buffoni, Cesare Viviani, Alberto Bellocchio, Giuliano Scabia...) e, per colmo, suo ex-seguace politico!
No, le parole vengono meno quando si tratta di analizzare l'insondabile, menzognera arroganza di questo articolo. Eppur bisogna rispondere, umiliarsi a rispondere, ben sapendo che contro un medium come "La Repubblica" non servirà a niente e che, del resto, né allo spocchioso Sofri, né alla redazione del suo giornale, né a gran parte del pubblico può importare un fico secco della questione: il suo pezzo, Sofri l'avrà scritto in una mezza serata, fiero di aver trovato un tema serio da trattare quale la commemorazione di Elsa Morante e di poter dire che lui no, non se l'è lasciata sfuggire perché lui è più colto. E poi fa la lezioncina ai lettori del quotidiano nazionale parlando dei poeti greci usciti nei Meridiani. Ecco, la sua paginetta è buttata giù, spedita al giornale, pubblicata.
Passano tre giorni e tutti l'hanno dimenticata; i diretti interessati per primi perché tanto, oggi, il dibattito intellettuale sui giornali non esiste più. E così Sofri può deblaterare a buon conto, avanti il prossimo pezzo, la prossima predica più o meno sgangherata e mal redatta...
La prima smentita che si potrebbe dare all'improvvido Sofri è che qualche mese fa più di cento poeti italiani, ben poco soccorsi da "La Repubblica" e dagli altri media d'Italia, hanno dato vita ad un'iniziativa vibrante, vissuta e largamente seguita, sia su internet che in serate apposite, dal pubblico loro (ma non da Sofri) dal nome "Calpestare l'oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana".
Seconda smentita: proprio quest'anno, nel silenzio più assordante di "La Repubblica" e di altri media, è uscita l'antologia "Trentennio" del già citato Gianni D'Elia, bilancio biografico, poetico e politico di una generazione. Per una volta in un volume di trecento pagine invece delle cento consentite di norma dalla collana di poesia di Einaudi, si tratta dell'ultimo titolo di una ormai lunga serie. Ma questo per Sofri non conta nulla.
Terza smentita: contrariamente a quanto sostiene il male informato articolista che fulmina contro le tendeze frivole dei poeti italiani così poco impegnati, negli ultimi anni la poesia del nostro paese sta cambiando. Né è testimone il "Portale di poesia e realtà" che è "La Gru", l'afflusso che registra di poeti giovani o già maturi, ma anche la critica più recente, per esempio quella di Daniele Maria Pegorari, autore di "Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008" (Morelli&Vitali, 2009).
La smentita finale tiene in due parole: Roberto Roversi. Un nome e un cognome. Spero di non avere bisogno di dire altro sul più gran poeta civile italiano, che ha pubblicato l'edizione della sua opera, "L'Italia sepolta sotto la neve", in edizione domestica (trentadue copie), dato il livello dell'udienza.
Allora scrivere quel che Sofri ha scritto quando la realtà è tutt'altra, e addirittura quando quella realtà letteraria si occupa pure di lui, della sua troppo lunga prigionia, del suo essere politico, diventa una tragica beffa.
Questo tipo di sberleffo tuttavia è destinato a restare senza una risposta mediatica equivalente, né Sofri stesso consentirà mai ad una ritrattazione o una parola di rammarico, perché il suo scritto è apparso su di uno dei giornali che più hanno contribuito in questi ultimi anni a mascherare la viva e plurale realtà d'Italia, a svilire ogni opposizione, a negare ogni vera alternativa: si veda il poco e nulla che combinano i suoi referenti del P.D.
"La Repubblica " che paga Sofri è il contenitore ideale per questo tipo di ciarlataneria apparentemente impegnata, in realtà frivola, mistificatrice, disperante.
Che cosa sarebbe costato all'incredibile Sofri usare il suo articolo, cioè il suo strapotere mediatico, per dire tutt'altra cosa, per informare gl'italiani che sì, la poesia impegnata in Italia esiste, è vivace, intelligente e, soprattutto, è bellissima, efficace, appassionante?
In conclusione, mi pare che il buon Sofri, dal suo palchetto o pulpito mediatico, abbia un problema a vedere la realtà. E' prigioniero di una forma di languore abulico, di chiusura mentale, di smemoratezza politica, oltreché d'ignoranza poetica. Che dirgli per aiutarlo a liberarsene? Sofri, esci dalla tua prigione mentale, non calpestare la poesia italiana!

mercoledì 13 gennaio 2010

Intervento d'apertura di Davide Nota all'assemblea dei poeti contro l'oblio (8 gennaio 2010, Roma)

Terrei ad aprire questa assemblea ponendo sul tavolo del nostro convivio alcuni temi, su cui si potrà spero discutere assieme e a partire dai quali siete chiamati tutti ad intervenire, inziando dagli interventi degli amici e poeti Franco Buffoni, Pietro Spataro, Flavio Santi, Maria Grazia Calandrone ed Enrico Piergallini.

A me sembra innanzitutto che la nostra iniziativa "Calpestare l'oblio", con tutti i mille difetti che una iniziativa spontanea e non filtrata può contenere, abbia significato qualcosa e che sia già "un significato" aggiunto alla nostra sebbene marginale storia.

Il primo significato aggiunto è, secondo me, proprio questo: e cioè che una storia minore, la poesia italiana, si è considerata parte integrante e non separata nè separabile di una storia "complessiva" e "complessa", la cultura; ed ecco che riacquisita la consapevolezza del contesto, e dunque dell'azione possibile interna a tale contesto, anche un movimento minore come la poesia può e deve assumersi le responsabilità proprie di ogni agente dialettico, "il senso di responsabilità" di chi apprende di essere parte di una rete di relazioni su cui può operare azioni e da cui può attendere reazioni.

Ecco, in questo modo l'oblio particolare del genere proprio, la poesia, è stato inteso non con vittimismo autoreferenziale ma come individuazione di un oblio generale, che è la storia delle tante rimozioni operate dalla rappresentazione ufficiale, la comunicazione italiana, l'acculturatrice ideologica del groviglio di poteri in atto che chiamiamo "berlusconismo", e all'interno proprio della comunicazione la poesia ha agito non come linguaggio autonomo ma relativo, cioè in relazione con un'alterità, l'auditorio non specialistico, e con un contesto, la storia.

Il genere rimosso - che non vuol dire morto, ma anzi vivo, vegeto e palpitante al di là del muro di Berlino delle quinte rappresentative - il genere rimosso della poesia, che è solo una delle tante rimozioni inconsce o consce di un'epoca in quanto realtà non funzionale alla riduzione dell'individuo a ruolo operata dalla controriforma del capitalismo italiano postmoderno, ha svolto un'azione dimostrativa, e per me "Calpestare l'oblio" ha fondamentalmente questo valore. Abbiamo preso un tema caldo del dibattito pubblico, la memoria repubblicana, e lo abbiamo affrontato con le armi della poesia, che sono le armi dello sguardo complessivo e polisemantico, a partire da un'inversione nel titolo per cui il classico tema della memoria della resistenza è divenuto il tema anche della "resistenza della memoria", che alcuni dei poeti presenti hanno infatti affrontato da un punto di vista lirico e metafisico; insomma, arrivando al dunque perchè non voglio dilungarmi, la poesia italiana ha "dimostrato" di esistere e lo ha dimostrato pubblicamente, ed ha dimostrato di non essere un'area morta dei linguaggi e di poter interagire anche con un pubblico non specialistico, non di addetti ai lavori né di iniziati all'analisi delle figure retoriche o della prosodia e metrica. La poesia italiana ha cioè dimostrato di poter essere letta ed assimilata come viene letto ed assimilato un romanzo, una composizione musicale o un'opera cinematografica, e quindi anche ad un livello spontaneo e non scolastico, perchè - ed è questo un altro tema che metto sul nostro tavolo di lavoro - la rimozione del genere poetico da parte della comunicazione italiana è andata a braccetto, secondo me, con un processo speculare, e cioè con l'autoreclusione patologica, da sindrome di Stoccolma, del rifiuto da parte dei poeti di ogni tipo di relazione con l'esterno, con le altre discipline, con gli altri linguaggi e discorsi della società italiana.

Ecco, secondo me "Calpestare l'oblio" vuole dire, a primo impatto, due cose molto semplici, e cioè che 1) quella che abbiamo chiamato "Ideologia della separazione", e cioè la restaurazione del meccanicismo sociale, la funzionalizzazione della società intesa come catena di montaggio economico, finanziario e consumistico fine a sè stesso (e parallelamente, dunque, la neutralizzazione del Sapere, di quello che fu nel Novecento il pensiero critico, mediante la separazione delle discipline e dei linguaggi), ecco questa ideologia della storia è da noi oggi percepita come una ideologia stagnante e dunque superata, e che dunque noi contestiamo e denunciamo come si contesta un peso arbitrario di cui si è assunta una certa consapevolezza; 2) le strutture, i giornali, i media, le organizzazioni politiche e culturali che si danno come valore costitutivo la critica di tale ideologia non possono latitare sulla questione culturale e dunque neppure sul discorso della poesia, che assieme alla musica compositiva è una delle arti più ferite e umiliate dal fenomeno culturale del "berlusconismo", specialmente se il discorso poetico è poi capace, come lo è, di aprire delle questioni transdisciplinari, in dialogo con la storia, con la filosofia, con la politica, e soprattutto con l'etica, e non sto parlando di poesia civile, perchè solo per fare un esempio al giorno d'oggi sarebbe scandalosamente attuale e politico anche pubblicare in prima pagina un sonetto di Shakespeare per parlare di amore tra individui, tra soggetti, e non tra generi sessuali o ruoli.

Insomma, io credo che abbiamo dimostrato, visto che nessuna argomentazione teorica è più incisiva della dimostrazione pratica, il potenziale della poesia senza aggettivi, e penso che la dimostrazione è andata bene, se da un e-book di poesia partorito davvero dalla periferia della provincia, e dal web, grazie soprattutto alla sensibilità di un giornalista anomalo in quanto poeta, Pietro Spataro, siamo stati rilanciati da L'Unità, per poi provocare questo effetto domino su tutte le testate che sapete: Libero, Il Foglio, Il Giornale, Gli altri, Il Corriere della Sera, Radio 24, Il manifesto, Left, oggi Radio 3, e il dogma della non incisività, quasi per condizione naturale, della poesia nel dibattito pubblico, è stato infranto.

Riassumendo, penso che le questioni da affrontare pubblicamente siano due: 1) la questione culturale tout court in Italia, cioè la presa di coscienza di un'epoca nazionale che io chiamo "Il Trentennio", iniziato simbolicamente nel 1978, con l'acquisizione di Telemilano da parte dell'imprenditore Berlusconi, e finito simbolicamente nel 2009, con il passaggio della Tv via etere al digitale terrestre, passaggio che rappresenterà nei prossimi anni la crisi di un monolite mediatico sprezzante della cultura e il passaggio ad una concorrenza più vasta, certamente tra gruppi di potere e lobby, all'interno della quale però la cultura, la riflessione, il pensiero critico, l'arte, potranno e dovranno trovare un proprio spazio, per cui da questa piccola iniziativa autogestita dei poeti potrebbe nel tempo seguire una vera e propria presa di posizione più complessiva da parte della cultura e dell'arte italiana per un nuovo media, anche pubblico.

Insomma, quel che possiamo iniziare a fare, a partire da oggi, non è altro che questo, smetterla di considerarci come monadi autonome e costituire un metaforico legame, perchè non è vero che il legame con l'alterità sia prigionia non più di quanto non lo sia il suo contrario, se proprio Ulisse fu salvo dal canto delle sirene e potè portare a termine la propria missione grazie ad un legame, affettivo e reale; e le sirene non hanno smesso di cantare. Non voglio dire altro che questo: continuiamo questa rete di discussione e di relazione e di progetto comune, e assieme all'oblio calpestiamo anche le diffidenze di gruppo, regionale o stilistico - perchè la guerra tra poveri è un'altra delle caratteristiche dell'auto-annichilimento della poesia italiana contemporanea - e mettiamo in moto una metaforica "Officina" del pensiero critico e poetico ed artistico in Italia.

La seconda questione è quella squisitamente poetica, per cui il mio è per andare al sodo un appello perchè gli strumenti di divulgazione di quella che siamo soliti chiamare la "Sinistra", l'area cioè che dovrebbe essere interessata allo sviluppo di una sensibilità e di un pensiero alternativi all'omologazione consumistica e alla società dello spettacolo italiana, concedano spazio alla poesia italiana, che è in sè una rivolta contro il Trentennio.

Questi sono alcuni dei temi che possiamo affrontare e che possono essere presi come pretesto per iniziare un piccolo dibattito.
Mi scuso se il mio discorso è stato molto semplice ma l'ho preferito impostare in questo modo, perchè credo sia più efficace individuare dei punti chiave anche per la comunicazione verso l'esterno. Ora lascio il microfono ai primi ospiti...



[Intervento successivo: Franco Buffoni, puoi leggerlo qui]

mercoledì 18 novembre 2009

Sono usciti i "Riscritti corsari" di Gianni D'Elia (Effigie, 2009)


Gianni D'Elia, Riscritti corsari (Effigie, 2009; 174 pp.)
a cura di Davide Nota
introduzione di Furio Colombo

*

"A noi hanno raccomandato un silenzio spontaneo, come se illegalità e istituzioni fossero la stessa cosa. Sta scritto in queste pagine che non abbiamo ubbidito; sta scritto in queste pagine che, benché invecchiati, benché molto meno giovani, non ubbidiremo." (Furio Colombo)

"Questo libro sia dunque la ferma testimonianza di una “resistenza culturale”, da parte della poesia italiana, contro l’omologazione della politica parlamentare. E siano anche, questi scritti, davvero un invito all'unità, di lotta e di speranze, perché Sinistra torni ad essere, innanzitutto, una Comune sentimentale, e non più soltanto un domicilio tecnocratico. Solo una nuova stagione di “Antropologia corsara”, e cioè di poesia e di analisi, marxismo eretico e nuovo umanesimo, cristianesimo socialista e passione illuministica per la verità, sarà in grado di risvegliare e rifondare questo nostro utopico Paese." (Davide Nota)

"E allora, eccoli qui, questi «Riscritti corsari», che sono anche un piccolo diario critico della poesia recente. La confusione democratica è sovrana, senza Unità della Sinistra e senza Unione del Centrosinistra. C’è chi corre solo, ma gli altri arriveranno. Non possiamo che essere dissidenti, come gli artisti nelle mansarde, a ribadire quattro no leopardiani: no al dominio del denaro; no al dominio dell’opinione (oggi immagine, società dello spettacolo); no al cinismo politico; no al trasformismo culturale. No al silenzio storico sulla nostra rovina collettiva." (Gianni D'Elia)

mercoledì 18 febbraio 2009

Invito alla lettura di "Petrolio" di Pier Paolo Pasolini

Ripartendo dagli studi di Gian Carlo Ferretti, soprattutto dal suo Pasolini, l'universo orrendo (Editori Riuniti, 1976), si può concludere così: l'eresia di Pasolini è la sua ideologia in atto della "vita contro la storia", è la sua lotta ("furia filosofica" e "indignazione politica") contro il dogma moderno dello sviluppo dell'"universo orrendo" del Nuovo Potere globale e, in definitiva, la sua critica poetica (leopardiana e marxista) dell'economia politica dell'esistente che lo mette a morire, perché Pasolini l'ha "inquadrata" e sta per rivelarla nel suo inedito.
Petrolio (il brogliaccio incompiuto del romanzo postumo, scritto tra il 1972 e il 1975) ne rappresenta in qualche modo la summa, applicata all'Italia del boom, al suo ente petrolifero pubblico (Eni), nella doppia storia di un ingegnere petrolchimico, lo scisso protagonista del romanzo: Carlo (cui Pasolini dà il nome che fu di suo padre). Carlo primo viaggia in Iraq (!), in Medio Oriente, verso Est, alla ricerca del "vello d'oro" che è oggi il petrolio, ricalcando l'antico e mitico viaggio degli Argonauti, ma anche quello moderno e economico-politico dei "condottieri" alla Mattei. Carlo secondo resta invece a Roma, poi a Torino e in Calabria, provando infinite avventure erotiche, che lo conducono a una mutazione finale: la trasformazione in donna, che in realtà poi toccherà a Carlo primo, in un gioco di specchi di identità e dissociazione ossessiva.
Carlo primo scava il petrolio, serve il Potere, è complice delle trame economiche e politiche delittuose, che vanno (nella ripetizione del viaggio petrolchimico di conquista, e del viaggio mitico-onirico, alla Apollonio Rodio, dell'Io) dall'assassinio di Enrico Mattei all'impero di Eugenio Cefis, e che hanno come base l'ambiguità storica della fase resistenziale, in cui maturano i rapporti con gli americani e i servizi segreti, costituendo quel "misto" di "formazione degasperiana e repubblicana", laici/cattolici, su cui Pasolini tanto insiste: fascismo/antifascismo, pubblico/privato, politica/crimine, Sviluppo/Reazione.
L'altro Carlo discende gli inferi paradisiaci della libidine ossessiva omosessuale (e non solo), e forse, mettendo in atto narrativamente la filosofia del gioco della dépense (Georges Bataille), rappresenta la dissipazione polimorfa, di fronte alla figura contraria dell'accumulazione economica di denaro e potere politico. Scava il corpo, l'anomia dell'identità.
Il terzo protagonista è il narratore (e cioè Pasolini stesso, o il suo fantasma) che si salva morendo nel mare di Calabria, ritrovando l'acqua fetale, orfica.

Gianni D'Elia, Il Petrolio delle stragi (Effigie, 2006), pp.20-21