In uno scritto del 2012 dedicato all’esperienza del gruppo di poesia e realtà “La Gru” scrissi a proposito di Stefano Sanchini: «Ancor più decisamente ostile all’idea di una poesia come linguaggio riservato a una ristretta comunità di interesse specialistico è l’esperienza virulenta di Stefano Sanchini, autore la cui personalità poetica esonda con frequente violenza nel tentativo di invadere il territorio circostante.
Distinguere la scrittura di Sanchini dal suo timbro vocale o dalla sua presenza biografica nel mondo è impossibile per chiunque abbia avuto occasione di conoscerlo e ascoltarlo.
Il poeta laureato in filosofia e autista di autobus a Pesaro, dove vive in una sorta di comune rurale di sua proprietà assieme ad alcuni amici, è già negli anni divenuta una piccola leggenda territoriale a causa di questa sua sorta di incosciente e francescana, ebbra, invadenza con cui improvvisa recitativi di poesia e lezioni di estetica alle ore più improprie del giorno o della notte e nei confronti dei più improbabili auditori occasionali.
La poesia è per Sanchini un atto di amore e di guerra, sanguigno e indomabile, è il suo sangue alla testa, e in tale dimensione tragica (ed eroica, anche) egli ha piantato l’albero verdeggiante della propria esistenza.
La sua avventura di parola (e il suo destino, forse, lavorativo e esistenziale) ha inizio con un viaggio, e non è un caso che il suo primo libro di poesia, un bellissimo canzoniere lirico pubblicato per Fara nel 2008, abbia per titolo Interrail come il nome della tariffa che Trenitalia ha predisposto negli anni Novanta e Duemila per percorsi a basso costo verso le principali località europee.
Il viaggio in Europa che Sanchini ci tramanda è l’occasione di un incontro, corpo a corpo, con la terra di una vasta tradizione culturale (si pensi solo alla lirica dedicata a Francoforte, sede della nota Scuola filosofica neoumanista e marxiana) incisa e corrosa dai segni plumbei di una storia presente che scandisce immagini di guerra per via radiotelevisiva e consumismo dilagante per strade e piazze animate da popolazioni massificate e frantumate in solitudini separate e incomunicabili, impermeabili all’incontro.
La delusione di tale viaggio originario, che narrativamente si rivela nel rifiuto emblematico del poeta nei confronti dell’ipocrisia del gruppo a cui s’accompagna (“ma l’amicizia non è salutarsi”), è la presa d’atto di un arido vero globale e la rinuncia, quindi, a trovare in un “altrove” proiettato esternamente al proprio habitat residenziale una forma ideale di patria disattesa. Inizia per Sanchini, che nel frattempo ha trovato lavoro a Pesaro, la costruzione filosofica e rituale, religiosa, della propria “casa”, sopra le zolle imbevute di vino e di canto della campagna marchigiana.
Qui egli scrive forse il capitolo più importante della sua presente bibliografia, un monologo in versi dal titolo Via del Carnocchio, distribuito nel 2009 in fotocopie rilegate in occasione delle ripetute esecuzioni orali svolte per locali e case private e infine pubblicato nel 2010 per le edizioni Thauma dell’amico Serse Cardellini. La via del Carnocchio è l’antico nome della strada campestre in cui il poeta abita, tra Pesaro e Fano, trasfigurata nel poemetto in crocevia archetipico e pagano ove si incontrano, a tarda notte, le dee Inerzia, Bellezza, Fede e Morte, in dialogo con il Poeta sulla vita dell’uomo, la storia presente e il mistero dell’ignoto e dell’oltre-vita.
Una religiosità non astratta ma incarnata anche moralisticamente nella carne storica dell’autore che giudica e commenta il presente, bestemmiandolo o adorandolo come un amante ai piedi della propria amata, in lacrime. Ciò comporta, formalmente, la scelta stilistica del poema orale, vale cioè a dire di un drama finalizzato all’esecuzione, e il conseguente abbassamento del controllo metrico per una prosodia fondata sull’accentazione, sulla rigogliosa trama di assonanze interne e sulle soluzioni più irregolari di necessità oratoria (le pause, i silenzi, le variazioni di velocità).
È raro, io credo, partecipare a un reading di poesia al giorno d’oggi, in Italia, in cui dal pubblico si sollevino voci concordi o discordi con l’autore, che interrompe la lettura per tuffarsi in qualche animata discussione politica o di carattere biografico ed esistenziale per poi riprendere l’ordito poetico lì dove era stato interrotto: come se questa continua ingerenza della poesia nella realtà e della realtà nella rappresentazione scenica sia la vera e grande soluzione estetica che egli, oggi, ci propone e dona.».
Ci separano da queste parole quattro anni. Nel frattempo il poema della Via del Carnocchio si è sviluppato in trittico, componendosi di un capitolo centrale lirico, La casa del filo di paglia (Sigismundus, 2013; con una premessa di Gianni DʼElia), e di questo momento finale, Il villaggio, che lo conclude e illumina coralmente. Dalla terra alla casa, dunque; e dalla casa al villaggio. Da una solitudine pagana come conditio prima al sodalizio fraterno di un focolare; e ora al progetto, cui lʼautore ha votato i suoi ultimi anni, di una eco-comunità da istituire tra le stelle e le pietre della campagna marchigiana.
La poesia per Stefano Sanchini è un respiro esistenziale, un diario di bordo dellʼesperienza reale che si svolge cantando. Per questo non elementi di ricerca letteraria sono i suoi versi ma brandelli di esistenza meditabonda e febbrile. I resti di qualcosa, che non si pensano la cosa. Nietzsche parlava di “pensieri che camminano” contro i falsi pensieri del linguaggio. Se la scrittura è il velo, lʼoggetto è sotto. Ed è lʼoggetto nascosto che si rivela, non il velo che lo nasconde e protegge. Potremmo dirla infine così, forse, continuando la mai interrotta corrispondenza di pensiero poetico che ancora oggi lega fatalmente i poeti de “La Gru”: Non ci interessa nessuna estetica che non sia lʼeco di unʼavventura.
Il villaggio di Stefano Sanchini è dunque un canto che nasce da una porzione inedita di realtà esperita. Da questa posizione privilegiata, la terra in cui si compie un rito di passaggio, ardendo lʼepoca defunta nei falò notturni ai bordi del fiume e sotterrando un piccolo seme mistico per la società olistica di domani, il poeta non canta solamente ciò che accade, sebbene il libro sia intarsiato di parole e frasi realmente pronunciate dagli abitanti dellʼeco-villaggio. La poesia, a differenza della retorica, non si serve di parole ma serve le parole. Dunque la notte plana come un gufo indiano alla ricerca di visioni. E come sempre accade, dunque, la scenografia di un libro di vera poesia si compone di dati reali e di visioni fantastiche o misteriose, improvvisamente riemerse da chissà quale ignoto abisso psichico, in cui lo stesso io poetico, lʼautore, si sdoppia divenendo al contempo “guida” e “guidato” di un viaggio alla scoperta di un paesaggio armonico non solo esterno quanto, piuttosto, mistico e interiore.
Come nel viaggio nei quattro mondi alchemici dellʼEndimione di John Keats Stefano Sanchini si conferma come una delle ultime voci orfiche di cui il nostro ferito, addormentato, traumatizzato paese boschivo di fiumi e neve possa ancora dissetarsi. Perché un paese, la sua terra di pietre, ha lunga pazienza. Come la terra dei Navajo, onirica ed estesa, che ancora attende con la pazienza dei millenni il ritorno delle tribù native e delle loro canzoni. Così il nostro bosco italiano, abitato da tanta umanità rappresa e infelice in una nevrosi che fu borghese ed industriale ed oggi non è più neppure ciò che un tempo fu, ma solo il rantolo cieco di una vita impazzita sotto il crollo delle sue forme sociali precedenti. I vasti boschi attendono il ritorno dei poeti e dei mistici, dopo lʼepoca volgare dei letterati e dei cardinali.
Di tanto in tanto dunque, un monaco eretico e visionario, della famiglia dei Roberto Roversi o dei Jim Morrison, porta un poco di sollievo a questo cielo stellato come un lupo che ulula solitario sul monte e in quellʼululato egli dice al mondo che la vita è ancora in vita e che qualcuno sta ancora aspettando e che i grandi spiriti del Sud faranno ritorno.
Il viaggio è pieno di luce. Il primo verso già lo illumina: “fuoco”, “luce”. E tutto è quadro. E tutto è sogno. Un sogno più reale dellʼirreale realtà quotidiana. Un sogno in cui il lettore è già trasceso, deposte le maschere dei ruoli storici, in esistenza. Non più individuo socializzato ma corpo in vita. Egli riprende così il cammino, la “rotta”. Assieme a lui è il poeta, ma il poeta non è lʼautore Stefano Sanchini, poiché lʼautore è colui che sogna la voce e la trascrive. Vale cioè a dire che anche la voce poetica è una voce trascesa: “Non è vaga lʼipotesi / che lʼanima torni nei luoghi / in cui fu secoli prima / nella stessa sostanza e principio / ma nella forma che il tempo trasforma”. Questa voce sa più di quanto lʼautore conosca. Se ricongiungersi, nella sapienza degli antichi greci, era infatti lʼatto del “ricordare”, la voce di questo poema “ricorda”. E siamo noi, lettore ed autore assieme, a bere dalla fontana di Mnemosine prima di iniziarci a una comune avventura in cui chi guida è anche colui che segue, voce che rivela e primo ascolto di sé stessa, fratelli a seguire i passi di una rivelazione altra. Eccoci dunque qui. Perché “Il nostro sentire ci ha fatto incontrare”, di fronte alle porte del villaggio.
Davide Nota
da Stefano Sanchini, Il villaggio (Sigismundus, 2016)
Distinguere la scrittura di Sanchini dal suo timbro vocale o dalla sua presenza biografica nel mondo è impossibile per chiunque abbia avuto occasione di conoscerlo e ascoltarlo.
Il poeta laureato in filosofia e autista di autobus a Pesaro, dove vive in una sorta di comune rurale di sua proprietà assieme ad alcuni amici, è già negli anni divenuta una piccola leggenda territoriale a causa di questa sua sorta di incosciente e francescana, ebbra, invadenza con cui improvvisa recitativi di poesia e lezioni di estetica alle ore più improprie del giorno o della notte e nei confronti dei più improbabili auditori occasionali.
La poesia è per Sanchini un atto di amore e di guerra, sanguigno e indomabile, è il suo sangue alla testa, e in tale dimensione tragica (ed eroica, anche) egli ha piantato l’albero verdeggiante della propria esistenza.
La sua avventura di parola (e il suo destino, forse, lavorativo e esistenziale) ha inizio con un viaggio, e non è un caso che il suo primo libro di poesia, un bellissimo canzoniere lirico pubblicato per Fara nel 2008, abbia per titolo Interrail come il nome della tariffa che Trenitalia ha predisposto negli anni Novanta e Duemila per percorsi a basso costo verso le principali località europee.
Il viaggio in Europa che Sanchini ci tramanda è l’occasione di un incontro, corpo a corpo, con la terra di una vasta tradizione culturale (si pensi solo alla lirica dedicata a Francoforte, sede della nota Scuola filosofica neoumanista e marxiana) incisa e corrosa dai segni plumbei di una storia presente che scandisce immagini di guerra per via radiotelevisiva e consumismo dilagante per strade e piazze animate da popolazioni massificate e frantumate in solitudini separate e incomunicabili, impermeabili all’incontro.
La delusione di tale viaggio originario, che narrativamente si rivela nel rifiuto emblematico del poeta nei confronti dell’ipocrisia del gruppo a cui s’accompagna (“ma l’amicizia non è salutarsi”), è la presa d’atto di un arido vero globale e la rinuncia, quindi, a trovare in un “altrove” proiettato esternamente al proprio habitat residenziale una forma ideale di patria disattesa. Inizia per Sanchini, che nel frattempo ha trovato lavoro a Pesaro, la costruzione filosofica e rituale, religiosa, della propria “casa”, sopra le zolle imbevute di vino e di canto della campagna marchigiana.
Qui egli scrive forse il capitolo più importante della sua presente bibliografia, un monologo in versi dal titolo Via del Carnocchio, distribuito nel 2009 in fotocopie rilegate in occasione delle ripetute esecuzioni orali svolte per locali e case private e infine pubblicato nel 2010 per le edizioni Thauma dell’amico Serse Cardellini. La via del Carnocchio è l’antico nome della strada campestre in cui il poeta abita, tra Pesaro e Fano, trasfigurata nel poemetto in crocevia archetipico e pagano ove si incontrano, a tarda notte, le dee Inerzia, Bellezza, Fede e Morte, in dialogo con il Poeta sulla vita dell’uomo, la storia presente e il mistero dell’ignoto e dell’oltre-vita.
Una religiosità non astratta ma incarnata anche moralisticamente nella carne storica dell’autore che giudica e commenta il presente, bestemmiandolo o adorandolo come un amante ai piedi della propria amata, in lacrime. Ciò comporta, formalmente, la scelta stilistica del poema orale, vale cioè a dire di un drama finalizzato all’esecuzione, e il conseguente abbassamento del controllo metrico per una prosodia fondata sull’accentazione, sulla rigogliosa trama di assonanze interne e sulle soluzioni più irregolari di necessità oratoria (le pause, i silenzi, le variazioni di velocità).
È raro, io credo, partecipare a un reading di poesia al giorno d’oggi, in Italia, in cui dal pubblico si sollevino voci concordi o discordi con l’autore, che interrompe la lettura per tuffarsi in qualche animata discussione politica o di carattere biografico ed esistenziale per poi riprendere l’ordito poetico lì dove era stato interrotto: come se questa continua ingerenza della poesia nella realtà e della realtà nella rappresentazione scenica sia la vera e grande soluzione estetica che egli, oggi, ci propone e dona.».
Ci separano da queste parole quattro anni. Nel frattempo il poema della Via del Carnocchio si è sviluppato in trittico, componendosi di un capitolo centrale lirico, La casa del filo di paglia (Sigismundus, 2013; con una premessa di Gianni DʼElia), e di questo momento finale, Il villaggio, che lo conclude e illumina coralmente. Dalla terra alla casa, dunque; e dalla casa al villaggio. Da una solitudine pagana come conditio prima al sodalizio fraterno di un focolare; e ora al progetto, cui lʼautore ha votato i suoi ultimi anni, di una eco-comunità da istituire tra le stelle e le pietre della campagna marchigiana.
La poesia per Stefano Sanchini è un respiro esistenziale, un diario di bordo dellʼesperienza reale che si svolge cantando. Per questo non elementi di ricerca letteraria sono i suoi versi ma brandelli di esistenza meditabonda e febbrile. I resti di qualcosa, che non si pensano la cosa. Nietzsche parlava di “pensieri che camminano” contro i falsi pensieri del linguaggio. Se la scrittura è il velo, lʼoggetto è sotto. Ed è lʼoggetto nascosto che si rivela, non il velo che lo nasconde e protegge. Potremmo dirla infine così, forse, continuando la mai interrotta corrispondenza di pensiero poetico che ancora oggi lega fatalmente i poeti de “La Gru”: Non ci interessa nessuna estetica che non sia lʼeco di unʼavventura.
Il villaggio di Stefano Sanchini è dunque un canto che nasce da una porzione inedita di realtà esperita. Da questa posizione privilegiata, la terra in cui si compie un rito di passaggio, ardendo lʼepoca defunta nei falò notturni ai bordi del fiume e sotterrando un piccolo seme mistico per la società olistica di domani, il poeta non canta solamente ciò che accade, sebbene il libro sia intarsiato di parole e frasi realmente pronunciate dagli abitanti dellʼeco-villaggio. La poesia, a differenza della retorica, non si serve di parole ma serve le parole. Dunque la notte plana come un gufo indiano alla ricerca di visioni. E come sempre accade, dunque, la scenografia di un libro di vera poesia si compone di dati reali e di visioni fantastiche o misteriose, improvvisamente riemerse da chissà quale ignoto abisso psichico, in cui lo stesso io poetico, lʼautore, si sdoppia divenendo al contempo “guida” e “guidato” di un viaggio alla scoperta di un paesaggio armonico non solo esterno quanto, piuttosto, mistico e interiore.
Come nel viaggio nei quattro mondi alchemici dellʼEndimione di John Keats Stefano Sanchini si conferma come una delle ultime voci orfiche di cui il nostro ferito, addormentato, traumatizzato paese boschivo di fiumi e neve possa ancora dissetarsi. Perché un paese, la sua terra di pietre, ha lunga pazienza. Come la terra dei Navajo, onirica ed estesa, che ancora attende con la pazienza dei millenni il ritorno delle tribù native e delle loro canzoni. Così il nostro bosco italiano, abitato da tanta umanità rappresa e infelice in una nevrosi che fu borghese ed industriale ed oggi non è più neppure ciò che un tempo fu, ma solo il rantolo cieco di una vita impazzita sotto il crollo delle sue forme sociali precedenti. I vasti boschi attendono il ritorno dei poeti e dei mistici, dopo lʼepoca volgare dei letterati e dei cardinali.
Di tanto in tanto dunque, un monaco eretico e visionario, della famiglia dei Roberto Roversi o dei Jim Morrison, porta un poco di sollievo a questo cielo stellato come un lupo che ulula solitario sul monte e in quellʼululato egli dice al mondo che la vita è ancora in vita e che qualcuno sta ancora aspettando e che i grandi spiriti del Sud faranno ritorno.
Il viaggio è pieno di luce. Il primo verso già lo illumina: “fuoco”, “luce”. E tutto è quadro. E tutto è sogno. Un sogno più reale dellʼirreale realtà quotidiana. Un sogno in cui il lettore è già trasceso, deposte le maschere dei ruoli storici, in esistenza. Non più individuo socializzato ma corpo in vita. Egli riprende così il cammino, la “rotta”. Assieme a lui è il poeta, ma il poeta non è lʼautore Stefano Sanchini, poiché lʼautore è colui che sogna la voce e la trascrive. Vale cioè a dire che anche la voce poetica è una voce trascesa: “Non è vaga lʼipotesi / che lʼanima torni nei luoghi / in cui fu secoli prima / nella stessa sostanza e principio / ma nella forma che il tempo trasforma”. Questa voce sa più di quanto lʼautore conosca. Se ricongiungersi, nella sapienza degli antichi greci, era infatti lʼatto del “ricordare”, la voce di questo poema “ricorda”. E siamo noi, lettore ed autore assieme, a bere dalla fontana di Mnemosine prima di iniziarci a una comune avventura in cui chi guida è anche colui che segue, voce che rivela e primo ascolto di sé stessa, fratelli a seguire i passi di una rivelazione altra. Eccoci dunque qui. Perché “Il nostro sentire ci ha fatto incontrare”, di fronte alle porte del villaggio.
Davide Nota
da Stefano Sanchini, Il villaggio (Sigismundus, 2016)